Джек Марс - Assassino Zero стр 11.

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E tutto ciò nel giorno del Ringraziamento.

“Signore?” Tabby lo incalzò con garbo.

Rutledge non si era reso conto di essersi perso nei suoi pensieri. Sobbalzò e si stropicciò gli occhi. “Va bene, ricapitolando: abbiamo motivo di credere che gli Stati Uniti potrebbero diventare un bersaglio?”

“Attualmente”, affermò il direttore Shaw, “dovremmo operare partendo dal presupposto che gli Stati Uniti saranno un obiettivo. Non possiamo permetterci di non farlo”.

“Abbiamo qualche informazione su chi possa esserci dietro a tutto questo?” Chiese Rutledge.

“Non ancora”, rispose Johansson.

“Queste azioni non ricordano il modus operandi di nessuno dei nostri amici mediorientali”, disse il generale Kressley. “Se dovessi fare una scommessa, penserei ai russi”.

“Non possiamo fare alcun tipo di ipotesi”, ribadì la Johansson con fermezza.

“Data la nostra storia recente”, affermò Kressley, “la definirei un'ipotesi plausibile”.

“Siamo un'agenzia di intelligence”, replicò la Johansson, seppur con un lieve sorriso. “E come tale, raccoglieremo informazioni e lavoreremo sui fatti. Non sulle supposizioni. Non sulle ipotesi”.

Rutledge era attratto da quella graziosa donna bionda che si rifiutava di retrocedere di fronte a un generale con quattro stellette. Si rivolse a lei e le chiese: “Cosa propone, Johansson?”

“Il nostro miglior ingegnere sta attualmente progettando un metodo per rintracciare questo tipo di arma. Basandomi sull’Avana, direi che è molto probabile che gli autori stiano vicino all'acqua e colpiscano un'area costiera. Con la sua approvazione, signore, vorrei inviare una squadra delle Operazioni Speciali per rintracciarli”.

Rutledge annuì lentamente: un'operazione della CIA sembrava un'opzione molto più accattivante rispetto al portare l'attenzione su un potenziale attacco. In silenzio e con discrezione, pensò. Poi gli venne improvvisamente un'idea.

“Johansson”, chiese, “tra i tuoi agenti c'è l'uomo che ha portato alla luce il caso Kozlovsky, giusto? Colui che ha trovato l'interprete e ha recuperato la registrazione?”

La Johansson apparì stranamente titubante, ma annuì. “Sì, signore”.

“Come si chiama?”.

“Sarebbe… beh, lo chiamiamo Zero. Agente Zero, signore”.

“Zero. Giusto”. Rutledge si massaggiò il mento. “Lui. Voglio che mandiate lui”.

“Uhm, signore… non è abbastanza pronto per il campo in questo momento. Sta lavorando per tornare sul campo”.

Il presidente non sapeva cosa significasse, ma gli sembrava una scusa o un eufemismo. “Il suo compito è fare in modo che sia pronto, vicedirettore”. Non avrebbe accettato repliche; Rutledge sapeva che quello era l'uomo giusto. L'agente aveva salvato da solo l'ex presidente Pierson dall'assassinio e aveva scoperto il patto segreto tra Harris e i Russi. Se ci fosse stato qualcuno in grado di trovare l'arma ultrasonica e chiunque ci fosse dietro, doveva essere lui.

“Se posso”, disse la Johansson, “la CIA ha uno dei migliori tracker al mondo a sua disposizione. Un ex Ranger e un agente decorato a pieno titolo…”

“Fantastico”, la interruppe Rutledge, “mandate anche lui. Il prima possibile”.

“Sì, signore”, rispose piano la Johansson, fissando il piano del tavolo.

“C'è qualcos'altro?” chiese. Nessuno parlò, quindi Rutledge si alzò dal suo posto e anche gli altri quattro nella Stanza delle Decisioni si alzarono. “Allora tenetemi aggiornato e provate a godervi la festa, per quanto possibile”. Annuì e uscì dalla sala conferenze, e i due agenti dei servizi segreti lo seguirono immediatamente.

Essere sempre osservato. Non essere mai veramente solo.

In realtà, si rese conto, si sbagliava. In quel momento, si sentì in tutt'altro modo: non importa quante persone lo circondassero, lo consigliassero, lo proteggessero, lo spingessero in una direzione o nell'altra, si sentiva veramente solo.

CAPITOLO CINQUE

Zero si svegliò con la luce del sole che filtrava dalle persiane e gli scaldava il viso. Si mise a sedere e allungò le braccia per stiracchiarsi. Ma c'era qualcosa che non andava; quella camera da letto era più grande di quanto avrebbe dovuto essere, ma familiare. Non c'era una sola scrivania di fronte a lui, ma due, di cui una più bassa e sormontata da uno specchio.

Non si trovava nel suo appartamento a Bethesda. Si trovava nella sua camera da letto a New York, la loro camera da letto, nella casa in cui vivevano insieme. Prima… prima che accadesse tutto.

E quando girò lentamente la testa vide, sbalordito, che lei era lì. Sdraiata accanto a lui, con la trapunta tirata fino a metà busto, che dormiva pacificamente in una canottiera bianca, come faceva spesso. I suoi capelli biondi erano perfettamente disposti sul cuscino; c'era un leggero sorriso sulle sue labbra. Sembrava un angelo. Spensierata. Tranquilla.

Lui sorrise e si adagiò di nuovo sul cuscino mentre la guardava dormire. Osservando le sue guance perfette e la leggera fossetta sul mento che Sara aveva ereditato. Sua moglie, la madre dei suoi figli, il più grande amore della sua vita.

Sapeva che non era vero, ma desiderava che lo fosse, che quel momento potesse continuare all'infinito. Le toccò delicatamente la spalla, facendo scorrere le punte delle dita lungo la sua pelle liscia, fino al gomito…

Poi si accigliò.

La sua pelle era fredda. Non respirava.

Non stava dormendo. Era morta.

Uccisa da una dose letale di tetrodotossina, somministrata da un uomo che Zero aveva chiamato amico, un uomo a cui Zero aveva risparmiato la vita. Una decisione di cui si pentiva ogni giorno.

“Svegliati”, mormorò. “Per favore. Alzati”.

Non lo fece. Non si sarebbe svegliata mai più.

“Per favore, svegliati”. Ripeté, con voce rotta.

Se era morta, era colpa sua.

“Svegliati”.

È stata colpa sua se era stata assassinata.

“Sveglia!”

Zero fece un respiro mentre si metteva seduto sul letto. Era un sogno; era nella sua camera da letto a Bethesda, dalle pareti bianche e spoglie, con una sola scrivania. Non sapeva se avesse realmente urlato, ma aveva la gola secca e un forte mal di testa.

Gemette e guardò l'ora sul telefono mentre tornava alla realtà. Il sole era alto; era il giorno del Ringraziamento. Doveva alzarsi dal letto. Doveva mettere il tacchino nel forno. Non poteva soffermarsi su un incubo, perché ciò avrebbe significato soffermarsi sul passato e soffermarsi su…

Su…

“Oh mio Dio”, mormorò sottovoce. Le sue mani tremarono e gli si strinse lo stomaco.

Il suo nome. Non riusciva a ricordarlo.

Per un lungo momento rimase seduto in quel modo fissando il copriletto come se la risposta fosse scritta lì. Ma non era lì, e non sembrava nemmeno essere nella sua testa. Non riusciva a ricordare il suo nome.

Zero si strappò le coperte di dosso e praticamente si lasciò cadere dal letto. Allungò una mano sotto il letto, e tirò fuori una cassetta di sicurezza ignifuga grande quanto una valigetta.

“La chiave”, disse ad alta voce. “Dov'è la chiave, maledizione?” Si rialzò di nuovo in piedi e spalancò il cassetto più alto del comò, quasi estraendolo dalle guide. Afferrò la piccola chiave d'argento che giaceva lì, tra i calzini e le cinture arrotolate, e si lasciò cadere di nuovo a terra mentre apriva la cassetta di sicurezza.

All'interno c'erano vari documenti e oggetti importanti, tra cui il passaporto per lui e per le ragazze, il suo certificato di nascita e la tessera di previdenza sociale, due pistole, un migliaio di dollari in contanti e il suo anello nuziale. Tirò fuori tutto e fece una piccola pila sul pavimento, perché nessuno di questi oggetti era quello che stava cercando. Si fermò brevemente su una foto, una foto di loro quattro a San Francisco un'estate, quando Maya aveva cinque anni e Sara tre. Ricordava perfettamente la donna nella foto; nella sua testa risuonava la sua risata allegra, sentiva il suo respiro sull'orecchio, il tocco caldo della sua mano nella sua.

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