“Qual è il suo nome, maledizione?!” La sua voce tremò mentre gettava da parte la foto e continuava a scavare. Doveva essere lì. Molte delle sue cose erano ancora nel seminterrato di Maria, ma era certo di averlo messo nella cassetta di sicurezza…
“Grazie a Dio!” Riconobbe la busta e la aprì rapidamente. All'interno c'era un solo foglio, stampato su cartoncino spesso con il timbro di una corte di New York. Il loro certificato di matrimonio.
La sua gola si asciugò mentre fissava il nome. “Katherine”, si disse. “Si chiamava Katherine”. Ma non si sentì sollevato; quello che provò fu soltanto terrore. Il nome non gli suonava familiare, non riportava in lui alcun ricordo. Era come una parola nuova sulla sua bocca. “Katherine”, disse di nuovo. Katherine Lawson”.
Non gli suonava bene, anche se quel nome era stampato proprio lì davanti ai suoi occhi in nero su bianco. Si chiamava Katherine? Lui la chiamava Katherine? O forse era…
Kate.
Zero fece un enorme sospiro di sollievo. Kate. La chiamava Kate. I ricordi ritornarono tutti insieme all'improvviso come un rubinetto che si apriva. Ora finalmente provava sollievo, seppur accompagnato dalla consapevolezza che per quei pochi minuti strazianti, aveva completamente dimenticato il nome di sua moglie e non era qualcosa che potesse giustificare come un lapsus momentaneo.
Zero afferrò il suo cellulare e cercò tra i suoi contatti. Aveva bisogno di risposte. L'orario in Svizzera era indietro di sei ore rispetto a lì. Probabilmente era il primo pomeriggio, forse il loro ufficio era già aperto.
“Rispondi”, supplicò Zero. “Rispondi, rispondi…”
“Pronto, qui è l'ufficio del dottor Guyer”. La voce femminile che rispose alla chiamata era sommessa, tinta di un accento svizzero-tedesco. L'avrebbe trovata sensuale se non fosse stato preso dal panico.
“Alina?” chiese rapidamente. “Devo parlare con il dottor Guyer, è molto importante…”
“Mi scusi”, disse, “posso chiedere chi parla?”
Giusto. “Sono Reid. Voglio dire, Kent. Kent Steele. Zero”.
“Ah, Agente Steele”, disse lei allegramente. “Che bello sentirla”.
“Alina, è urgente”.
“Certo”. Immediatamente tornò seria. “Lo chiamo, attenda un momento”.
Il dottor Guyer era un geniale neurologo svizzero, probabilmente tra i migliori al mondo, ed era anche l'uomo che aveva installato il soppressore della memoria delle dimensioni di un chicco di riso nella testa di Zero quattro anni prima, che aveva cancellato dalla sua memoria qualsiasi ricordo della CIA. Ma Guyer aveva agito su richiesta di Zero, e in seguito fu anche il medico che eseguì la procedura che gli aveva riportato tutti quei ricordi, molto tempo dopo.
Entrambi erano stati in contatto costantemente durante l'ultimo anno; il dottore era stato felice di apprendere che i ricordi di Zero erano tornati e si era mostrato desideroso di eseguire ulteriori test, ma ciò avrebbe richiesto un viaggio in Svizzera, che Zero non aveva avuto il tempo o l'energia per fare, sebbene ammettesse che glielo doveva. Tuttavia, se qualcuno avesse potuto dirgli cosa stesse succedendo nella sua mente, quello era Guyer.
“Agente Steele” disse una voce profonda attraverso il telefono, accentuata e abbastanza cupa da suggerire che avrebbero saltato i convenevoli. “Alina ha detto che sembravi angosciato. Qual è il problema?”
“Dottor Guyer”, disse Zero. “Ho bisogno di aiuto. Non sono sicuro di cosa stia succedendo, ma…” Si fermò quando un altro orribile pensiero lo colpì. E se quella non fosse una chiamata privata? E se qualcuno stesse ascoltando? La CIA aveva già tracciato le sue telefonate in precedenza. E se avessero sentito tutto ciò…
Stai diventando paranoico. Non fare sempre gli stessi errori.
Nonostante ciò, una volta che quel pensiero si trovò nella sua mente, non riuscì più ad allontanarlo. Dopotutto, era sempre meglio essere cauti. Era appena tornato alla CIA, ed era felice. Come se la sua vita avesse di nuovo uno scopo. Se avessero saputo di tutto ciò, le cose sarebbero cambiate molto rapidamente per lui e non voleva tornare alla fase depressiva che aveva vissuto per più di un anno.
“Agente Steele? Ci sei ancora?”
“Sì. Scusi”. Zero fece del suo meglio per mantenere la sua voce calma e uniforme mentre diceva: “Solo che… ho qualche problema a ricordare alcune cose”.
“Hmm”, disse Guyer pensieroso. “A breve o lungo termine?”
“Direi più a lungo termine”.
“E credi che questo possa essere… preoccupante?” Guyer stava scegliendo con cura le parole. Zero si chiese se il dottore stesse pensando la stessa cosa, che la loro chiamata potesse essere monitorata. Un dottore come Guyer avrebbe potuto trovarsi nei guai per ciò che aveva fatto, sicuramente avrebbe perso la sua licenza medica, o forse sarebbe stato addirittura arrestato e sarebbe finito in prigione.
“Direi che penso che dovrei programmare quel viaggio per vederla prima o poi”, gli disse Zero.
“Capisco”. Guyer rimase in silenzio, e quella pausa confermò a Zero il fatto che il dottore stesse attento come lui. “Beh, sei fortunato. Non dovrai venire da me; ho una conferenza la prossima settimana al Johns Hopkins a Baltimora. Posso vederti in quei giorni. Sono sicuro che uno dei miei colleghi mi permetterà di utilizzare una sua sala”.
“Perfetto”. Zero si sentì immediatamente sollevato. Era certo che il dottore sapesse cosa fare, o almeno fosse in grado di spiegare cosa gli stesse succedendo in testa. “Mi mandi i dettagli, ci vediamo lì”.
“Va bene. A presto, agente Steele”. Guyer riattaccò e Zero si sedette frustrato sul bordo del letto. Le sue mani tremavano ancora e il pavimento della sua camera da letto era pieno di ricordi.
Forse è stato solo un lapsus del momento, si disse. Forse quel sogno mi ha scosso ed è stata solo una breve dimenticanza. Forse sono andato nel panico per niente.
Ovviamente non credeva a nessuna delle bugie che si stava ripetendo.
Ma qualsiasi cosa stesse accadendo nella sua testa, la vita doveva continuare. Si costrinse ad alzarsi, a indossare un paio di jeans e una camicia. Rimise tutti gli oggetti nella cassetta di sicurezza, la chiuse a chiave e la spinse sotto il letto.
In bagno si lavò i denti e si spruzzò un po' d'acqua fredda sul viso prima di dirigersi verso la cucina, giusto in tempo per vedere Maya che chiudeva lo sportello del forno e impostava il timer digitale.
Zero la guardò stupito. “Che stai facendo?”
Lei si strinse nelle spalle e si scostò la frangia dalla fronte. “Ho messo il tacchino nel forno”.
Lui sbatté le palpebre. “Stai cucinando il tacchino? Ti insegnano anche questo a West Point?”
Maya sorrise. “No”. Poi sollevò il telefono. “Ma Google sì”.
“Beh, ottimo. Allora mi farò un caffè”. Fu di nuovo piacevolmente sorpreso di scoprire che aveva già preparato anche quello. Maya era sempre stata tanto indipendente quanto intelligente, ma gli sembrava quasi che stesse cercando di aiutarlo. Non poté fare a meno di chiedersi se si sentisse impotente in merito alla situazione di Sara tanto quanto lui; forse quello era un modo di dimostrargli il suo supporto.
Così decise di non intervenire e di lasciarle fare quello che voleva. Si sedette al bancone e mescolò il caffè, cercando di allontanare dalla mente l'episodio spiacevole del suo risveglio. Pochi minuti dopo Sara si avventurò in cucina, ancora in pigiama, con gli occhi parzialmente aperti e i capelli arruffati.
“Buongiorno”, disse Maya allegramente.
“Buona festa del Ringraziamento”, intervenne Zero.
“Mm”, borbottò Sara mentre si trascinava verso il caffè.
“Sei rimasta una persona non molto mattiniera, eh, topolina?” Maya la stuzzicò leggermente.
Sara bofonchiò qualcos'altro, ma lasciò trapelare il cenno di un sorriso sulle sue labbra al suono del suo soprannome d'infanzia. Sentì un calore dentro, e non era solo il caffè; era una sensazione che gli mancava da tempo, la sensazione di essere veramente a casa.