“Forse,” disse Yuri, “prendo la pistola e sparo a Otets. Poi tu avrai bisogno di me.”
“Yuri, nyet!” gridò Otets, quella volta più sbalordito che arrabbiato.
“Vedi, Kent,” spiegò il messaggero. “Questa non è Cosa Nostra. È più, uh… una storia di impiegati scontenti. Vedi come mi tratta. Quindi magari gli sparo, e tu e io, ci mettiamo d’accordo…”
Otets strinse i denti e sibilò una sfilza di maledizioni a Yuri, ma il messaggero reagì solamente con un largo sorriso.
Reid stava diventando impaziente. “Yuri, se non abbassi la pistola subito, sarò costretto a…”
Il braccio di Yuri si mosse, solo un minuscolo segnale che stava per alzarsi. L’istinto di Reid scattò come una macchina che stesse cambiando marcia. Senza pensarci prese la mira e sparò, solo una volta. Successe tanto rapidamente che il rinculo della pistola lo spaventò.
Per un mezzo secondo, Reid pensò di averlo mancato. Poi sangue scuro eruttò da un buco nel collo di Yuri. Cadde in ginocchio, alzando debolmente una mano per fermare il flusso, ma era troppo tardi.
Servono due minuti per morire dissanguati dall’arteria carotide tagliata. Non voleva sapere come faceva ad avere quella certezza. Ma bastano dai sette ai dieci secondi per svenire per la perdita di sangue.
Yuri cadde in avanti. Reid subito si voltò verso la porta d’acciaio con la Glock puntata al suo centro. Aspettò. Respirava con calma e senza fretta. Non sudava nemmeno. Otets ansimava a fatica, e si teneva il dito rotto con la mano buona.
Non arrivò nessuno.
Ho appena sparato a tre uomini.
Non c’è tempo per questo ora. Esci di qui.
“Stai fermo,” ringhiò a Otets mentre lo lasciava andare. Calciò la Desert Eagle in un angolo distante, dove finì sotto lo schedario. Non gli serviva un cannone come quello. Lasciò anche le pistole automatiche TEC-9 degli scagnozzi, erano inaccurate e buone solo a spruzzare proiettili su vaste aree. Invece, spintonò di lato il corpo di Yuri e prese la Beretta. Tenne anche la Glock, infilando entrambe le mani con le pistole in ciascuna tasca della giacca.
“Usciamo di qui,” disse a Otets, “tu e io. Tu vai per primo e fai finta che non stia succedendo niente di strano. Mi accompagni fuori, fino a una macchina decente. Perché queste?” Mosse le mani, ognuna infilata in una tasca e stretta attorno a una pistola. “Queste sono puntate alla tua schiena. Fai un solo sbaglio, di’ una singola parola e ti infilo un proiettile tra le vertebre L2 e L3. Se avrai la fortuna di non morire, sarai paralizzato per il resto della tua vita. Hai capito?”
Otets lo fissò storto, ma era abbastanza furbo da annuire.
“Bene. Allora fai strada.”
L’uomo russo si fermò alla porta d’acciaio. “Non uscirai vivo da qui,” disse in inglese.
“Farai meglio a sperare che ci riesca,” ringhiò Reid. “Perché se no mi accerterò che non lo faccia neanche tu.”
Otets aprì la porta e uscì sul pianerottolo. I suoni dei macchinari riecheggiarono subito fragorosi. Reid lo seguì fuori dall’ufficio e sulla piccola piattaforma d’acciaio. Abbassò lo sguardo oltre la ringhiera, verso il piano sotto. Le sue idee, o quelle di Kent? erano state corrette. C’erano due uomini a lavoro su una pressa idraulica. Un altro era davanti al corto nastro trasportatore, a ispezionare componenti elettronici che rotolavano lentamente verso una superficie metallica alla fine. Altri due con indosso occhialini e guanti di latex sedevano a un tavolo di melamina, misurando con cura qualche tipo di sostanza chimica. Stranamente, notò che erano di varie nazionalità, tre erano bianchi e con i capelli scuri, probabilmente russi, ma due erano di certo mediorientali. L’uomo alla pressa era africano.
L’odore di mandorle del dinitrotoluene gli colpì le narici. Stavano producendo esplosivi, come aveva dedotto in precedenza dall’odore e dai suoni.
Sei in tutto. Probabilmente armati. Nessuno di loro alzò lo sguardo verso l’ufficio. Non spareranno qui dentro, non con Otets all’aperto e queste sostanze chimiche tutte in giro.
Ma non posso neanche io, pensò Reid.
“Impressionante, no” disse Otets con un ghigno. Aveva notato che Reid stava ispezionando il piano.
“Muoviti,” comandò lui.
Otets prese le scale, le sue scarpe rumorose sul primo gradino metallico. “Sai,” disse casualmente, “Yuri aveva ragione.”
Esci di qui. Vai al SUV. Abbatti il cancello. Guida come se ti inseguissero tutti i diavoli dell’inferno.
“Ti serve uno di noi.”
Torna sull’autostrada. Trova una stazione di polizia. Coinvolgi l’Interpol.
“E il povero Yuri è morto…”
Dagli Otets. Costringilo a parlare. Scagionati dall’omicidio di sette uomini.
“Quindi penso che tu non possa uccidermi.”
Ho ucciso sette uomini.
Ma è stata legittima difesa.
Otets raggiunse l’ultimo gradino, Reid dietro di lui con le mani infilate nelle tasche della giacca. Aveva i palmi sudati, ognuno stretto attorno a una pistola. Il russo si fermò e si lanciò una rapida occhiata dietro la spalla, senza guardare veramente Reid. “Gli iraniani. Sono morti?”
“Quattro di loro,” rispose lui. Il fracasso dei macchinari quasi soffocò la sua voce.
Otets schioccò la lingua. “Peccato. Ma d’altra parte… significa che non mi sbaglio. Non hai piste, nessun’altro da cui andare. Ti servo.”
Stava scoprendo il bluff di Reid. Il panico gli salì nel petto. L’altra parte, la parte che era Kent, lottò contro di esso, come costringendolo a deglutire una pillola a secco. “Ho tutto quello che lo sceicco ci ha detto…”
Otets ridacchiò. “Lo sceicco, già. Ma ti sarai già accorto che Mustafar sapeva molto poco. Era solo un conto in banca, agente. Era un debole. Credevi che gli avremmo detto i nostri piani? E se fosse così, perché allora saresti venuto fin qui?”
La fronte di Reid si coprì di sudore. Era andato lì nella speranza di trovare delle risposte, non solo su questo fantomatico piano ma anche su chi fosse lui stessi. Aveva trovato molto più di quanto avrebbe voluto. “Muoviti,” ordinò di nuovo. “Verso la porta, lentamente.”
Otets scese dalle scale, muovendosi piano, ma non si incamminò verso la porta. Invece fece un passo verso il laboratorio, e i suoi uomini.
“Che cosa stai facendo?” volle sapere Reid.
“Fammi vedere le tue carte, agente Zero. Se mi sbaglio, allora mi sparerai.” Sorrise e fece un altro passo.
Due degli operai alzarono lo sguardo. Dalla loro prospettiva, sembrava che Otets stesse semplicemente parlando con uno sconosciuto, forse un socio d’affari o un rappresentante di un’altra fazione. Nessun motivo per allarmarsi.
Il panico salì di nuovo nel petto di Reid. Non voleva lasciare andare le pistole. Otets era a soli due passi di distanza, ma Reid non poteva afferrarlo e spingerlo verso la porta, non senza allertare i sei uomini. Non poteva rischiare di sparare in una stanza piena di esplosivi.
“Do svidaniya, agente.” Otets sorrise. Senza togliere gli occhi di dosso a Reid gridò in inglese: “Sparate a quest’uomo!”
Due lavoratori alzarono lo sguardo, guardandosi tra di loro e Otets in preda alla confusione. Reid ebbe l’impressione che fossero semplicemente operai, non soldati o guardie del corpo come il paio di scagnozzi morti al piano di sopra.
“Idioti!” ruggì Otets sopra al rumore dei macchinari. “Quest’uomo è della CIA! Sparategli!”
Quello attirò la loro attenzione. I due uomini al tavolo della melamina si alzarono rapidamente e misero mano alle fondine da spalla. L’uomo africano alla pressa pneumatica si abbassò per prendere un AK-47 ai suoi piedi.
Non appena si mossero, Reid saltò in avanti, tirando allo stesso tempo le mani, ed entrambe le pistole, fuori dalle tasche. Fece girare Otets per una spalla e sollevò la Beretta alla tempio sinistra del russo, per poi puntarla verso l’uomo con l’AK, stringendo a sé il capo.