“Non sarebbe molto saggio,” disse ad alta voce. “Sai che cosa potrebbe succedere se iniziassimo a sparare qui.”
La vista di una pistola alla tempia del loro capo spinse tutti gli altri uomini in azione. Aveva avuto ragione: erano tutti ben armati e ora aveva sei pistole puntate su di lui con solo Otets a frapporsi tra di loro. L’uomo con l’AK i mano guardò nervosamente verso i suoi compagni. Un sottile rivolo di sudore gli scivolò sul lato della fronte.
Reid fece un piccolo passo indietro, attirando Otets con sé con una spinta della Beretta. “Bravo, tranquillo,” disse a bassa voce. “Se iniziano a sparare qui, tutto il posto potrebbe saltare per aria. E non credo che tu voglia morire oggi.”
Otets strinse i denti e mormorò un’imprecazione in russo.
Poco alla volta indietreggiarono, un minuscolo passo alla volta, verso le porte dell’impianto. Il cuore di Reid minacciava di esplodergli fuori dal petto. I suoi muscoli si tesero nervosamente, e poi si distesero mentre l’altra parte di lui lo costrinse a rilassarsi. Rilassa le membra. I muscoli tesi rallenterebbero le tue reazioni.
Per ogni minuscolo passo che lui e Otets facevano all’indietro, i sei uomini ne facevano uno avanti, mantenendo la stessa breve distanza tra di loro. Stavano aspettando un’opportunità, e più si allontanavano dalle macchine e meno era probabile che innescassero inavvertitamente una reazione. Reid sapeva che era solo la possibilità di uccidere accidentalmente Otets che gli impediva di sparare. Nessuno parlava, ma le macchine ronzavano dietro di loro. La tensione nell’aria era palpabile, elettrica; era consapevole che in qualsiasi momento qualcuno avrebbe potuto farsi prendere dai nervi e cominciare a far fuoco.
Poi la sua schiena si appoggiò alle doppie porte. Un altro passo e le aprì, attirando Otets con sé con una spinta della canna della pistola.
Prima che le porte si chiudessero di nuovo, Otets ringhiò ai suoi uomini: “Non deve uscire vivo di qui!”
Poi si richiusero, e i due uomini si ritrovarono nella sala successiva, quella adibita alla vinificazione, piena del tintinnio delle bottiglie e del dolce profumo dell’uva. Non appena l’ebbero attraversata, Reid si girò con la Glock puntata a livello di un torso umano, continuando a puntare la Beretta su Otets.
Le macchina per l’imbottigliamento e la chiusura erano attive, ma era quasi tutto automatizzato. L’unica persona presente in tutta la stanza era una donna russa dall’aria stanca che indossava un foulard verde legato attorno alla testa. Alla vista delle pistole, Reid e Otets, i suoi occhi affaticati si sgranarono per il terrore e gettò in aria entrambe le mani.
“Spegnile,” disse Reid in russo. “Mi hai capito?”
Lei annuì vigorosamente e sollevò due leve sul pannello di controllo. Le macchine ronzarono e poco alla volta si fermarono.
“Vai,” le disse. La donna deglutì e indietreggiò verso l’uscita. “In fretta!” gridò secco lui. “Via di qui!”
“Da,” mormorò lei. Corse verso la pesante porta d’acciaio, la aprì e svanì nella notte al di fuori. La porta si richiuse con un boato.
“E ora, agente?” grugnì Otets in inglese. “Quale è il tuo piano di fuga?”
“Stai zitto.” Reid sollevò la pistola alle doppie porte che davano sull’altra stanza. Perché gli uomini non erano entrati? Non poteva continuare a muoversi senza sapere dove fossero. Se ci fosse stata una porta sul retro nell’impianto, avrebbero potuto essere già fuori ad aspettarlo. Se lo avessero seguito, non sarebbe mai riuscito a mettere Otets sul SUV e ad andarsene senza farsi ammazzare. Lì dentro non c’era la minaccia degli esplosivi, avrebbero potuto sparargli se lo avessero voluto. Avrebbero rischiato di colpire Otets per arrivare a lui? Nervi scossi e una pistola non erano una combinazione ideale per nessuno, nemmeno per il loro capo.
Prima che potesse decidere il da farsi, le potenti luci fluorescenti sopra la sua testa si spensero. In un istante finirono immersi nell’oscurità.
CAPITOLO OTTO
Reid non vedeva niente. Non c’erano finestre nell’impianto. I lavoratori nella stanza vicina dovevano aver staccato i contatori perché persino i rumori dei macchinari rallentarono fino a spegnersi.
Raggiunse rapidamente Otets al buio e afferrò il colletto del russo prima che potesse scappare. Otets emise un verso strangolato quando Reid lo tirò all’indietro. Allo stesso momento, si accese la luce rossa d’emergenza, una semplice lampadina che spuntava dal muro sopra la porta. Riempì la stanza di un vago e inquietante chiarore.
“Questi uomini non sono degli sciocchi,” disse piano Otets. “Non uscirai vivo di qui.”
Rifletté furiosamente. Doveva sapere dove erano, o ancora meglio, doveva far sì che andassero da lui.
Ma come?
È semplice. Sai che cosa fare. Smettila di opporti.
Reid prese un profondo respiro con il naso, e fece l’unica cosa che aveva senso in quel momento.
Sparò a Otets.
La secca esplosione della Beretta riecheggiò nella stanza altrimenti silenziosa. Otets gridò di dolore. Le sue mani volarono a stringere la coscia sinistra, dove il proiettile lo aveva appena sfiorato, facendolo sanguinare copiosamente. Sibilò una lunga litania furibonda di imprecazioni in russo.
Reid lo afferrò di nuovo per il colletto e lo tirò all’indietro, quasi facendolo cadere, costringendolo a chinarsi dietro il nastro trasportatore della macchina per l’imbottigliamento. Aspettò. Se gli uomini fossero ancora stati dentro, avrebbero di certo sentito lo sparo e sarebbero arrivati di corsa. Se non fosse venuto nessuno, erano da qualche parte fuori, in sua attesa.
Ebbe la sua risposta qualche secondo più tardi. Le doppie porte furono aperte con un calcio dall’altro lato, tanto forte da mandarle a sbattere contro il muro dietro di esse. Il primo ad attraversarle fu l’uomo con l’AK, muovendo la canna dell’arma in grandi archi, da una parte all’altra della stanza. Altri due uomini erano subito dietro di lui, entrambi armati di pistole.
Otets gemette per il dolore e si strinse forte la gamba. I suoi lo udirono, girarono l’angolo creato dalla macchina per l’imbottigliamento con le armi alzate e trovarono il loro capo seduto a terra, che sibilava tra i denti per la ferita alla coscia.
Reid, invece, non era lì.
Era corso rapidamente verso l’altro lato del macchinario, rimanendo abbassato. Si era infilato la Beretta in tasca e afferrato una bottiglia vuota dal nastro. Prima che potessero girarsi, abbatté la bottiglia sulla testa del lavoratore più vicino, un uomo mediorientale, e poi infilò il collo affilato e frastagliato nella gola del secondo. Sangue caldo gli colò sulle mani mentre l’uomo gorgogliava e cadeva a terra.
Uno.
L’uomo africano con l’AK-47 si girò, ma non fu abbastanza veloce. Reid usò l’avambraccio per spingere di lato la canna, mentre una salva di proiettili riempiva l’aria. Avanzò con la Glock, la spinse sotto il mento dell’uomo e premette il grilletto.
Due.
Un altro sparo finì il primo terrorista—dato che era ciò con cui chiaramente stava avendo a che fare, o così decise—ancora steso a terra privo di sensi.
Tre.
Reid respirava rapidamente, e cercava di calmare i battiti del suo cuore. Non aveva tempo di essere disgustato da quello che aveva fatto, né voleva soffermarsi a pensarci. Era come se il professore Lawson fosse andato in shock, e l’altra parte avesse preso del tutto il sopravvento.
Movimenti. Da destra.
Otets era emerso a gattoni da dietro la macchina e stava cercando di afferrare l’AK. Reid si girò rapidamente e lo calciò nello stomaco. La forza del colpo fece rotolare via il russo, che si tenne il fianco gemendo.