Delio Zinoni - Lia стр 30.

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Paradin appoggiò a terra un involto di pelle. Lo srotolò. Carni rosse, scuoiate. Forse due lepri e qualche uccello che non riconobbi. Alcune radici e delle erbe, raccolte in mazzi.

Myrtilla si inginocchiò per guardare. – Quanto? – chiese.

Il maestro nominò una cifra, molto modesta. Baran lo pagò senza mercanteggiare, e Myrtilla mise cacciagione e vegetali in un cesto. Paradin riavvolse la pelle. I due presero per una delle strade e noi li seguimmo. Non si voltarono mai a guardarci, né ci rivolsero la parola. Di tanto in tanto si scambiavano occhiate, segni, forse un paio di volte una parola sussurrata. Nessuno di noi osò turbare i loro misteriosi colloqui. I pochi contadini che incontrammo salutarono i cacciatori come se li conoscessero, ricevendo in cambio un cenno del capo.

Poco prima di mezzogiorno raggiungemmo una sorta di passo fra le colline. La vegetazione era rada: ginepro, ginestre quasi in fiore, qualche quercia. Molte altre piante di cui un abitatore della città, come me, non conosceva il nome, e probabilmente non lo conoscerà mai.

Oltre il crinale, le colline si adagiavano nella pianura. La calura rendeva indistinti i contorni, ma si intravedeva il nastro grigio-argento di un fiume, macchie più scure che forse erano città, tratti più chiari di strade.

Riskrill indicò. – Ah! – disse Baran, come riconoscendo i luoghi.

Paradin era sparito. Tornò poco dopo con della legna secca. Come per incanto, il fuoco era già acceso. Myrtilla gli sorrise grata e prese le provviste, gli attrezzi da cucina.

Ricordo che faceva molto caldo, le cicale cantavano forte fra l’erba secca, e la strada polverosa aveva accresciuto la nostra sete. Myrtilla prese un fiasco di vino che aveva tenuto in fresco nella botticella dell’acqua.

Paradin si sedette di nuovo accanto a me, per mangiare. Io mi ero tolto la giacca, e l’amuleto di Occhi di Gatto mi usciva dalla camicia slacciata. Me lo tolsi dal collo e lo mostrai a Paradin. Forse perché era l’unica cosa che avessi che potesse interessarlo, pensai.

Lui lo prese e se lo rigirò fra le dita. Era una sfera perfetta, nera, di un materiale opaco e liscio, che non avevo mai visto e di cui non sapevo il nome. Vidi che anche Riskrill la fissava.

– Questo – disse Paradin. – Possiede un grande potere.

– Come lo sai? – chiesi.

– Noi... cacciatori. – Con un movimento degli occhi cercò forse l’approvazione di Riskrill. – Conosciamo la magia. La caccia è magia. Il cibo è magia. La magia... – Non gli avevo mai sentito fare un discorso così lungo. – È sapere le cose.

Riskrill si alzò. Paradin teneva ancora fra le dita la sfera magica. Me la restituì, e nel farlo la sua mano si strinse attorno alla mia.

– Vi ringraziamo – disse Baran.

Fra i cespugli bassi, i due sparirono, in un tempo sorprendentemente breve.

(25) I DUE AMANTI


Il villaggio si chiamava Ardzilla, ed era davvero piccolo. Non doveva capitare molto spesso che vedessero un carro di teatranti, lì fra le Colline Ventose, a parecchie leghe dalla Strada del Mare.

C’era una locanda passabilmente pulita, con una sala comune per gli ospiti e un cortile piuttosto grande, che d’estate doveva servire anche per trebbiare il grano.

Baran fece i suoi calcoli. Si accordò con l’oste. Non c’era bisogno di manifesti, ad Ardzilla. Al calar della sera, il villaggio si era riunito quasi al completo nel cortile della locanda, senza riuscire a riempirlo.

Allestimmo uno spettacolo senza scene, usando come palcoscenico i tavoli della sala comune. In programma: la farsa di Galapin e Pandeimon, con intermezzi musicali e danzati. Astrix faceva Galapin, Myrtilla la servetta astuta, Baran l’avaro. Gertrid era andata a dormire presto, lamentando un mal di testa, e Dumpy Dum suonava una quantità impressionante di strumenti, anche contemporaneamente.

I tre sulla scena improvvisavano quasi tutto. Pandeimon venne abbindolato come di dovere, Galapin e Yvette si sposarono.

I bambini, seduti per terra in prima fila, guardavano con grandi occhi seri, ridendo solo ad imitazione dei grandi. Quello era probabilmente il primo spettacolo della loro vita. Non avevano mai visto la Festa delle Maschere, con duecentoquaranta spettacoli in una sola sera!

Il pubblico adulto rise con moderazione: anche loro non dovevano essere molto abituati alla finzione teatrale. Nondimeno, ci ricompensarono con maggiore generosità dei cittadini di Larissa, in proporzione al loro numero e alla loro ricchezza.

Alla fine, l’oste e Baran divisero il guadagno, con reciproca soddisfazione.

Andammo a letto quando il sole era tramontato da poco, e fummo svegliati all’alba per la colazione: latte cagliato e miele. Cominciavo a pensare che la vita del comico di campagna fosse ciò che faceva per me, dopo tutto.

Phainon è molto diversa da Larissa: posta all’incrocio di due grandi vie di comunicazione, affacciata sulla riva di un fiume pieno di chiatte e di barche, accoglieva chiunque vi entrasse come un’osteria i suoi avventori, come un bazar i clienti, come una fiera i curiosi. Per la verità Dumpy Dum usò un altro paragone, che qui non riferisco.

Non contava moltissimi abitanti, ma, sdraiata ai piedi delle Colline Ventose, occupava la pianura senza curarsi dello spazio: grandi strade, case bianche con giardini davanti e orti dietro, larghe piazze per i mercati e locande, affollate di stranieri; non avevo mai visto tanti abiti di fogge così diverse.

– Qui non dobbiamo badare ai regolamenti – ci comunicò Baran. – Ma alle borse sì: i ladri abbondano.

La locanda dove ci fermammo si chiamava Il Cinghiale Azzurro, e aveva un’insegna con quell’animale e quel colore. Intorno, qualche albero, alla cui ombra riparammo il carro.

Per essere un posto dove i ladri abbondavano, pareva che gli osti non volessero rendere a costoro la vita troppo difficile. – Non sarebbe meglio un cortile chiuso e un paio di cani? – chiesi a Dumpy Dum.

– Aspetta – rispose.

Poco dopo, un garzone dell’osteria si offrì di sorvegliarci il carro durante la notte, in cambio di una modica cifra.

A Phainon rappresentammo Il principe folle, una tragedia che non compariva nella mia raccolta, e che non avevo mai sentito raccontare. Il giovane principe di Erez si finge pazzo per smascherare lo zio che ha ucciso il re suo padre. Ma finisce per immedesimarsi a tal punto nella sua finzione, da compiere atti di vera follia, come uccidere la sua promessa sposa e profanare un cimitero. Alla fine, l’unica salvezza per il regno pare essere la permanenza sul trono dello zio assassino. Ma è veramente un assassino? O è forse la madre ad avere architettato l’uccisione del marito, per gelosia? Oppure la follia del principe è reale, fin dall’inizio? Preso dalle mie varie incombenze, suppongo di essermi perso qualche battuta, perché non riesco tuttora a giungere ad una conclusione.

La storia riscosse comunque molti applausi, tanto che la rappresentammo per due sere. Cominciavo a capire che Baran possedeva il dono principale per un capocomico: quello di saper indovinare i gusti del pubblico.

– Dove ha trovato questa storia? – chiesi a Myrtilla, dopo che era stata trasportata fuori dal palcoscenico, priva di vita.

Lei alzò le spalle. – Ogni capocomico ha il suo repertorio esclusivo. Da quando sono con lui, l’abbiamo sempre rappresentata. Aiutami a slacciare il vestito.

– Cioè da quanto tempo?

– Tre anni.

– Prima cosa facevi?

– Quello che devo fare adesso: la serva. – Rise. – Dammi il costume.

– E come...

– Un cavaliere si era innamorato dell’attrice giovane. Lei ha colto l’occasione al volo, e li ha piantati in asso. Si chiamava Jaline: bionda, la bocca a forma di cuore. – Sospirò. – Era molto bella.

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