Alessandra Grosso - Scala E Cristallo стр 5.

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secondo coscienza.

E decisi: avrei tentato di salvare la bambina. Potevo

morire io, potevo essere fatta a pezzi ma dovevo superare la

prova; dovevo cambiare ed essere più forte.

La forza si impara anche cammin facendo e io volevo che

fosse così per la mia vita, non volevo più scappare se non

quando fosse stato strettamente necessario. Qualcosa in me

stava cambiando e alla fine, forse, era giusto così. Era un

desiderio di pace e giustizia che paradossalmente mi spingeva

a lottare, un misto di bontà e dignità che è insito nei

guerrieri buoni delle storie che mi raccontavano da piccola.

Era la non accettazione del male, mai e senza nessun

compromesso, perché di compromessi per troppa bontà ne avevo

presi troppi ed ero ricorsa alla fuga, allumiliazione e a un

deprimente sentimento di bassa autostima. La depressione non

la volevo più, volevo combatterla. Volevo salvare la bambina

che ciondolava, perché in quel pendolo di incertezze vedevo me

stessa, in bilico tra una decisione e laltra, confusa e

insicura.

Dovevo agire istintivamente quando la bambina sarebbe

arrivata a metà percorso. Avrei tentato di tagliare la corda,

il problema era: con cosa?

Avrei potuto provare con il temperino con cui tagliavo la

carne secca oppure interi rami delle piante di bacca di cui

andavo tanto ghiotta. Era un piccolo temperino ed era

abbastanza malconcio dovevo però agire in fretta ed essere

precisa, perché avevo un altro mostro non lontano da me.

Mi lanciai a testa bassa, pensando che poteva essere mia

figlia e che avevo il dovere morale di salvarla, o almeno di

provarci. Il coltello tagliò rapidamente la prima parte della

corda poiché macilenta, ma poi si fermò.

Più provavo e meno riuscivo a tagliare.

Sentivo ridere alle mie spalle e provavo un gelo dentro di

me, un brivido che mi percorreva la schiena facendomi tremare

le braccia. I miei arti tremavano ma non la mia volontà, e

capii che loscuro bambino era il bambino che mi rincorreva e

che in quel momento si presentava davanti a me, gli occhi

verdi e terribili.

Aveva nascosto nella corda delle piccole spille.

Furente iniziai a toglierle, a cercare di bilanciare la

rotazione con il mio peso. Ero disperata, ma provai e

riprovai, bucandomi le mani e imprecando per le punture.

E la corda cedette. La piccola cadde a terra ma almeno

potevo dire che il suo eterno dondolare era cessato.

Finito di vedere quegli orrendi occhi verdi ero confusa,

ma mi feci forza e iniziai a urlare contro il mostro, non

avevo altro che la mia voce. Gli dissi, mostrando la piccola

che giaceva al suolo: «Ecco cosa hai fatto, non mi resta più

niente, NIENTE! Mi hai tolto tutto perché so che questa

bambina sarebbe stata legata a me in un futuro. Adesso

uccidimi se ti va fai quello che vuoi, cosa vuoi ancora, il

mio sangue?».

Lo sfidavo come una pazza, ma lui era cambiato. Mi strinse

la mano e mi disse che avevo fatto la cosa giusta, che avevo

superato la prova e che stavo diventando più forte.

La forza lavevo temprata dentro di me forgiandola con la

pazienza, come i fabbri battono il ferro e lo modellano fino a

ottenere spade affilatissime e oggetti di raro pregio. Ma

anche chi forgia, spreme e si impegna può sbagliare, ed è

forse questa lorigine di ogni insicurezza e lanello comune a

tutta lumanità: un brivido e un fiato di insicurezza che ci

spingono a scappare o ad attaccare; a capitolare o a vincere.

Questa volta avevo vinto, ma il viaggio doveva proseguire

e altre sfide si sarebbero parate davanti a me. Da una parte

non vedevo lora di misurarmi con esse, ma dallaltra sentivo

ancora il brivido gelido della paura verso lignoto. Ciò

nonostante proseguii con i miei stivali consumati verso altre

sfide e altri territori.

I territori tormentati tipici di una tundra nordica

sembravano alle spalle, con il loro denso odore di betulla e

gli alti abeti perseguitati dalla neve invernale. I

sempreverdi, che prima erano tutti intorno a me, si diradarono

per lasciare spazio a un misterioso labirinto.

Mi ritrovai improvvisamente vicino a intricate rovine che

portavano tanti anni quanti erano gli strati di licheni che le

coprivano. Erano malandate ma disegnavano ancora i loro

contorni. Se volevo addentrarmi nel labirinto, dovevo seguire

la direzione di quelle rovine; pazientemente, con tenacia e

spirito di sacrificio, dovevo piegare la mia volontà a quella

del fato. Il fato non doveva essere stato molto generoso

finora vista la sequenza di sfide che avevano indurito il mio

spirito e la mia pelle, irrobustendo il mio fisico ma

affaticandomi terribilmente.

La fatica era una sensazione che ben conoscevo, unamica e

una compagna di tutti i giorni. Era come una donna che non

mente: bella e terribile allo stesso tempo. Non altrettanto

seducenti erano le scritte che trovavo sui muri, scritte

terribili e pentacoli che sembravano tracciati con resti umani

e sangue.

Controllando le scritte mi spaventavo sempre di più:

dicevano di non entrare e di non avventurarmi, di non provare

quel cammino terribile; dicevano di lasciare i propri desideri

perché non si sarebbero avverati, perché semplicemente saremmo

morti.

Tracce umane, teschi e corpi martoriati non troppo

distanti da me. Mi sentivo osservata e spiata. Tutto, proprio

tutto sarebbe potuto accadere in quel momento.

Da sola attraversavo quel nuovo territorio ostile fatto di

sabbia, piccoli spazi lastricati e muschio che cresceva tra le

crepe delle antiche rovine.

In quelle rovine vi erano teschi abbandonati, alcuni con i

capelli ancora impigliati, capelli oramai ingialliti dal

tempo.

Allimprovviso, uno scricchiolio sospetto e poi uno

schianto. Davanti a me apparve una porta girevole, che spinsi.

E cosa trovai mi lasciò senza parole.

Era me stessa. Era me stessa, ma in un certo modo diversa.

Era me stessa, era me stessa che vedevo e non ci potevo

credere. Finalmente avrei avuto qualcuno con cui parlare e

confrontarmi. Avrebbe potuto dirmi da dove veniva, cosa

faceva.

Lei mi assomigliava in tutto, solo era vestita più

elegantemente. Aveva affrontato molte peripezie, come me, ma

non altrettanto pericolose. Trovandosi in un bel giardino, in

una dimensione lontana, era caduta ed era incappata nella

porta dimensionale che avevo aperto. Era così passata da un

mondo allaltro, trovandosi confusa e sotto shock per la

novità.

Ora eravamo in due in quel mondo parallelo, eravamo due

eroine nella notte, nel gelo di quelle agghiaccianti rovine.

Eravamo due ma pur sempre due gemelle, due piccole anime nella

notte, due candele accese che potevano aiutarsi lun laltra o

decidere di morire facendosi competizione.

La competizione femminile era qualcosa di micidiale, che

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