Orbene, con vostra licenza, messer lo conte, andrò io a dormire colà; disse il pellegrino; per dove ci si va egli?
Benedicite vi accompagnerà, che ben vi è debitore di tanto, dopo avervi fatto aspettare così lungamente alla entrata del castello.
Oh, io non gli tengo il broncio per cotesto! soggiunse l'ospite, mettendo con dimestichezza una mano sulla spalla del falconiere. Ma che avete voi, mastro Benedicite? Si direbbe che un povero pellegrino vi fa paura! Non son bello, lo so, ma non avrei creduto mai che voi, vir sapiens, giudicaste gli uomini dalla loro apparenza.
Diminguardi, messere! Quod Deus avertat rispose lo strozziere, provandosi a ridere.
E intanto tremava a verghe. La torcia di resina gli ballava la danza macabra nel pugno.
Qui, fatta riverenza al conte Ugo, il pellegrino si ritirò, accompagnato dal povero strozziere.
Rimasto solo, il conte si diede a passeggiare per la sala, senza ricordarsi dell'ora tarda e dei famigli che lo attendevano sul limitare, per rischiarargli la via fino alle sue stanze. Egli, già se n'è accorto il lettore, non era più di quel gaio umore, col quale si era seduto a mensa; molte cose erano avvenute nel picciol mondo della sua mente, molti e svariati pensieri vi turbinavano per entro.
Per la prima volta in sua vita, Ugo di Roccamàla incominciava a dubitare del lieto aspetto in cui solevano apparirgli le cose; il sottile veleno della filosofia d'Aporèma gli si era filtrato nel cuore, ed egli già sentiva quell'interno disagio, quel turbamento, quella inquietudine, che sono i segni precursori di tutte le infermità, siano esse del corpo o dell'anima.
Nel canto del pellegrino, a dir vero, non era nulla che egli già non avesse udito, o fatto argomento di controversia nella sua mente; chè anzi, discusse tra sè, o con altri, le ragioni del dubbio e quelle della fede, già da lunga pezza egli aveva data la palma a quest'ultima, e non era uomo da mutarsi così facilmente per ragionamento d'altrui. Ma egli bisogna pur dire che strane oltremodo erano le circostanze tra cui gli era apparso il pellegrino. Quello smilzo personaggio, che non si sapeva chi fosse, che parea contraddirsi ad ogni istante, che diceva le cose più gravi e malinconiche con bocca da ridere e che rideva con cera da funerale, gli aveva fortemente colpita la mente. Egli poi non se ne era anche fatto accorto, ma le paure del suo falconiere gli giravano confusamente per la fantasia: e tutte queste cose, mettendo l'animo suo in uno stato particolare, davano risalto ad una tesi che gli si offriva per la prima volta armata di beffardi sillogismi, di cupi dilemmi e di paurose interrogazioni.
Il suo raziocinio non s'era anche ficcato in quel ginepreto; sto per dire che gli occhi della sua mente non avevano ancora misurato il pericolo. Sentiva, non pensava per anco, o, per dire più veramente, i pensieri gli erravano ancora nel cervello, incerti, pallidi, senza contorni, sformandosi ad ogni tratto e in cento guise, a mo' di quelle fantastiche immagini che visitano i sogni dell'uomo, allorquando la febbre scorre nel sangue ed agita i polsi.
A toglierlo da quello stato, giunse in buon punto la voce di un famiglio. Veduto che il conte non pensava ad uscire, egli si era affacciato sul limitare, con la sua torcia in mano, per chiedergli se volesse ritirarsi nelle sue stanze.
Ah! gli è vero! disse Ugo, risovvenendosi dell'ora tarda e dell'esser solo oramai nella sala.
E portatasi una mano nei capegli, come per ravvivarli sulla fronte e cacciare nel tempo medesimo un importuno pensiero dal capo, conte Ugo s'innoltrò tra due file di servitori fino al suo appartamento.
Era tardi davvero! esclamò egli, vedendo nella camera innanzi alla sua il paggio Fiordaliso, che si era addormentato vestito daccanto al suo letticciuolo.
Questo povero ragazzo non ha potuto aspettarmi più oltre. Svegliatelo, e ditegli che vada a letto e dorma a suo bell'agio, ch'io sono già nelle mie stanze e non ho bisogno di lui.
CAPITOLO V
Nel quale è detto di ciò che vide il conte Ugo guardando la torre del NegromanteIl giovine signore di Roccamàla, come fu giunto nella sua camera, licenziò i famigli e andò difilato verso il letto, superba mole di legno intagliato, con un largo padiglione di damasco rabescato, che era sorretto da quattro svelte colonne.