Gesù della Gleba io lo chiamai un giorno, sorridendo.
Era un mattino pieno dinnocenza, uno di quei mattini che dànno imagine delle albe primordiali nellinfanzia della Terra. Sul limite di un campo, mio fratello parlava a un gruppo di agricoltori. Parlava in piedi, avanzando di tutto il capo gli astanti; e il suo gesto calmo dimostrava la semplicità delle sue parole. Uomini vecchi incanutiti nella saggezza, uomini maturi già prossimi al limitare della vecchiaia ascoltavano quel giovine. Tutti portavano su i loro corpi nodosi la traccia della grande comune opera. Poiché nessun albero era da presso, poiché il frumento era umile nei solchi, le loro attitudini apparivano integre nella santità della luce.
Come mi vide muovere verso di lui, mio fratello licenziò i suoi uomini per venirmi incontro. Allora spontanea mi uscì dalle labbra la salutazione:
Gesù della Gleba, osanna!
Egli aveva per tutti gli esseri vegetali una diligenza infinita. Nulla sfuggiva alle sue pupille acute, quasi onniveggenti. Nelle nostre corse mattutine, si soffermava ad ogni tratto per liberare da una chiocciola, da un bruco, da una formica una piccola foglia. Un giorno, senza badarci, camminando, battevo le erbe con la punta del bastone; e le tenere cime verdi recise ad ogni colpo sinvolavano. Egli ne soffriva perché mi tolse di mano il bastone ma con un gentile atto; ed arrossì, pensando forse che quella sua misericordia mi sarebbe parsa una esagerata morbidezza sentimentale. Oh quel rossore su quel volto così maschio!
Un altro giorno, mentre spezzavo a un melo qualche ramo fiorito, sorpresi negli occhi di Federico unombra di rammarico. Sùbito tralasciai, ritrassi le mani, dicendo:
Se ti dispiace
Egli si mise a ridere forte.
Ma no, ma no Spoglia pure tutto lalbero.
Intanto il ramo già rotto, ritenuto da alcune delle sue vive fibre, penzolava lungo il fusto; e, proprio, quella frattura umida di linfa aveva un aspetto di cosa dolente; e quei fiori esili, un po carnicini, un po bianchi, simili a ciocche di rose scempie, che portavano un germe omai condannato, avevano allaria un tremolio incessante.
Io dissi allora, come ad attenuare la crudezza di quella manomessione:
È per Giuliana.
E, strappando le ultime fibrille vive, distaccai il ramo già rotto.
III
Dovè Giuliana?
Su, nelle sue stanze ella rispose, ridendo.
Io feci di corsa le scale, attraversai il corridoio, entrai franco nellappartamento, chiamai:
Giuliana, Giuliana! Dove sei?
Maria e Natalia mi uscirono incontro con grandi feste, rallegrate alla vista dei fiori, irrequiete, folli.
Vieni, vieni, mi gridarono la mamma è qui, nella camera da letto. Vieni.
E io varcai quella soglia palpitando più forte; mi trovai alla presenza di Giuliana sorridente e confusa: le gittai il fascio ai piedi.
Guarda!
Oh, che cosa bella! esclamò, chinandosi sul fresco tesoro odorante.
Portava una delle sue ampie
i capelli, ricevendo in sommo la luce, formavano una esigua aureola; gli omeri anche in sommo si rischiaravano. Un piede, su cui premeva il peso del corpo, avanzava lestremità della veste, mostrando un po della calza cinerina e la babbuccia brillante. Tutta la figura, in quellattitudine, in quella luce, aveva una straordinaria forza di seduzione. Un lembo di paesaggio turchiniccio e voluttuoso, tra luno e laltro stipite, sfondava pel vano, dietro quella testa.
Allora fu che, dimprovviso, come per una rivelazione fulminea, io rividi in lei la donna desiderabile e nel mio sangue si riaccesero il ricordo e il desiderio delle carezze.
Io le parlavo guardandola fissamente. Come più la guardavo, più mi sentivo turbare; ed ella certo doveva leggere nel mio sguardo, perché linquietudine in lei si fece palese. Io pensai con unacuta ansietà interiore: Se ardissi? Se mavanzassi fino a lei e la prendessi fra le mie braccia? Anche la franchezza apparente che io cercavo di mettere nei miei discorsi leggeri, mabbandonò. Mi confusi. Quel disagio divenne insostenibile.
Giungevano dalle stanze contigue le voci di Maria, di Natalia e di Edith, indistinte.
Io mi levai, maccostai alla finestra, mi misi a fianco di Giuliana, fui sul punto di chinarmi verso di lei per proferire alfine le parole già tante volte ripetute dentro di me in colloqui imaginarii. Ma il timore di una interruzione probabile mi trattenne. Pensai che quel momento era forse inopportuno, che non avrei avuto forse il tempo di dirle tutto, di aprirle tutto il mio cuore, di raccontarle la mia vita interna delle ultime settimane, la misteriosa convalescenza della mia anima, il risveglio delle mie fibre più tenere, la rifioritura de miei sogni più gentili, la profondità del mio sentimento nuovo, la tenacità della mia speranza. Pensai che non avrei avuto il tempo di raccontarle i minuti episodii recenti, quelle piccole confessioni ingenue, deliziose allorecchio della donna che ama, fresche di verità, più persuasive di qualunque eloquenza. Io dovevo infatti riuscire a persuaderla duna grande e forse per lei incredibile cosa, dopo tante delusioni: riuscire a persuaderla che questo mio ritorno non era ingannevole, ma sincero, definitivo, necessitato da un bisogno vitale di tutto il mio essere. Ella, certo, diffidava ancóra; certo, in questo suo diffidare stava la ragione del suo ritegno. Ancóra fra noi sintrapponeva lombra dun atroce ricordo. Io dovevo scacciare quellombra, ricongiungere la mia anima a quella di lei così strettamente che nulla più potesse intrapporsi. E questo doveva accadere in unora favorevole, in un luogo segreto, silenzioso, abitato soltanto dalle memorie: a Villalilla.