дАннунцио Габриэле - LInnocente / Невинный. Книга для чтения на итальянском языке стр 15.

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col maestro, sotto gli occhi di tutti i presenti, simpadronì di me una particolare eccitazione nervosa che raddoppiò la mia energia. E sentivo su la mia persona lo sguardo fisso di Filippo Arborio.

Dopo, nello spogliatoio, ci ritrovammo. La stanza troppo bassa era già piena di fumo e dun odore umano acutissimo, nauseante. Tutti là dentro, nudi, nelle larghe cappe bianche, si strofinavano il petto, le braccia, le spalle, con lentezza, fumando, motteggiando ad alta voce, dando sfogo nel turpiloquio alla loro bestialità. Gli scrosci della doccia si alternavano con le grasse risa. E due o tre volte, con un indefinibile senso di repulsione, con un sussulto simile a quello che mi avrebbe dato un violento urto fisico, io intravidi il corpo smilzo dellArborio, a cui i miei occhi andavano involontariamente. E di nuovo limagine odiosa si formò.

Non ebbi, dopo dallora, altra occasione davvicinare colui e neppure dincontrarlo. Né me ne curai. Né in seguito fui colpito da alcuna apparenza sospetta nella condotta di Giuliana. Di là dal cerchio sempre più angusto in cui mi agitavo, nulla era per me chiaramente sensibile, intelligibile. Tutte le impressioni estranee passavano sul mio spirito come gocciole dacqua su una lastra arroventata, o rimbalzando o dissolvendosi.

Gli eventi precipitarono. Su lo scorcio di febbraio, dopo unultima e vergognosa prova, avvenne tra me e Teresa Raffo la rottura definitiva. Io partii per Venezia, solo.

Rimasi là circa un mese, in uno stato di malessere incomprensibile; in una specie di stupefazione che le caligini e i silenzii della laguna addensavano. Non altro conservavo in me che il sentimento della mia esistenza isolata, tra i fantasmi inerti di tutte le cose. Per lunghe ore non altro sentivo che la fissità grave, schiacciante, della vita e il piccolo battito di unarteria nella mia testa. Per lunghe ore mi teneva quel fascino strano che esercita su lanima come su i sensi il passaggio continuo e monotono di qualche cosa indistinta. Piovigginava. Le nebbie su lacqua prendevano talvolta forme lugubri, camminando come spettri con un passo lento e solenne. Spesso nella gondola, come in una bara, io trovavo una specie di morte imaginaria. Quando il rematore mi chiedeva in che luogo dovesse condurmi, io facevo quasi sempre un gesto vago; e comprendevo dentro di me la disperata sincerità delle parole: Dovunque, fuori del mondo!.

Tornai a Roma negli ultimi giorni di marzo. Avevo della realtà un senso nuovo, come dopo una lunga eclisse della conscienza. Una timidezza, uno smarrimento, una paura senza ragione mi prendevano talvolta allimprovviso; e mi sentivo debole come un fanciullo. Guardavo intorno a me di continuo, con unattenzione insolita, per riafferrare il significato vero delle cose, per coglierne i giusti rapporti, per rendermi conto di ciò che era mutato, di ciò che era scomparso. E, come a poco a poco rientravo nellesistenza comune, si ristabiliva nel mio spirito lequilibrio, si ridestava qualche speranza, risorgeva la cura dellavvenire.

Trovai Giuliana molto abbattuta di forze, alterata nella salute, triste come non mai. Poco parlammo e senza guardarci dentro alle pupille, senza aprire i nostri cuori. Ambedue cercavamo la compagnia delle due bambine; e Maria e Natalia in una felice inconsapevolezza riempivano i silenzii con le loro fresche voci. Un giorno Maria domandò:

Mamma, andremo questanno, per Pasqua, alla Badiola?

Io risposi, invece della madre, senza esitare:

Sì, andremo.

Allora Maria si mise a saltare per la stanza, in segno di gioia, trascinando la sorella. Io guardai Giuliana.

Vuoi che andiamo? le chiesi, timido, quasi con umiltà.

Ella consentì col capo.

Vedo che tu non stai bene soggiunsi. Anche io non sto bene Forse la campagna la primavera

Ella era distesa in una poltrona, tenendo le mani bianche posate lungo i bracciuoli; e la sua attitudine mi ricordò unaltra attitudine: quella della convalescente nel mattino della levata ma dopo lannunzio.

Fu decisa la partenza. Ci preparammo. Una speranza luceva nel profondo della mia anima, e io non osavo mirarla.

I

Era di aprile, dunque. Eravamo da alcuni giorni alla Badiola.

Ah, figliuoli miei, aveva detto mia madre, con la sua grande ingenuità come siete sciupati! Ah quella Roma, quella Roma! Bisogna che restiate qui con me, in campagna, molto tempo, per rimettervi molto tempo

Sì aveva detto Giuliana, sorridendo sì, mamma, resteremo

quanto vorrai.

Quel sorriso ridivenne frequente su le labbra di Giuliana, in presenza di mia madre; e, sebbene la malinconia degli occhi rimanesse inalterabile, era così dolce quel sorriso, era così profondamente buono che io stesso mi lasciai illudere. Ed osai mirare la mia speranza.

Nei primi giorni, mia madre non si distaccava mai dalle care ospiti; pareva che volesse saziarle di tenerezza. Due o tre volte io la vidi, palpitando duna commozione indefinibile, io la vidi accarezzare con la sua mano benedetta i capelli di Giuliana. Una volta la udii che chiedeva:

Ti vuol sempre lo stesso bene?

Povero Tullio! Sì rispose laltra voce.

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