Ma il grande Andronico non era fatto di questa pasta. Andronico non era un tipo prudente o che si accontentava. Aveva sempre seguito le sue passioni e sebbene sapesse che era rischioso, non era pronto ad andarsene da quel luogo, ad ammettere la sconfitta, a permettere all’Anello di scivolargli via dalle mani. Anche se avesse dovuto sacrificare tutto l’Impero, avrebbe trovato un modo per annientare e dominare quel posto. Non importava cosa gli sarebbe costato.
Andronico non poteva controllare il drago o la Spada della Dinastia. Ma Thorgrin… quella era un’altra questione. Suo figlio.
Andronico si fermò e sospirò al pensiero. Che ironia: il suo stesso figlio, l’ultimo ostacolo rimasto al suo dominio sul mondo. In qualche modo sembrava sensato. Inevitabile. Andava sempre così: che le persone a te più vicine fossero quelle che ti ferivano di più.
Ripensò alla profezia. Era stato un errore, ovviamente, lasciarlo vivere. Il più grosso errore della sua vita. Ma aveva un debole per lui, anche se sapeva che la profezia dichiarava che proprio Thor lo avrebbe portato alla sua rovina. Lo aveva lasciato vivere e ora era giunto il momento di pagarne il prezzo.
Andronico continuò a camminare attraverso l’accampamento, seguito dai generali, fino a raggiungerne la periferia e raggiungere una tenda più piccola delle altre, l’unica di colore scarlatto in un mare di tende nere e dorate. C’era solo una persona che poteva avere l’audacia di possedere una tenda di colore diverso, l’unica persona che i suoi uomini temevano.
Rafi.
Lo stregone personale di Andronico, la creatura più sinistra che avesse mai incontrato, Rafi aveva sempre consigliato Andronico su ogni singolo passo, lo aveva protetto con la sua energia maligna, era stato più responsabile di chiunque altro della sua salita. Andronico odiava doversi rivolgere a lui adesso, ammettendo quanto avesse bisogno di lui. Ma quando incontrava un ostacolo che non fosse di questo mondo, qualcosa di appartenente alla magia, si rivolgeva sempre a Rafi.
Mentre Andronico si avvicinava alla tenda, due creature malvagie, alte e magre, avvolte in mantelli scarlatti, con occhi gialli che luccicavano da sotto i cappucci, lo fissarono. Erano le uniche creature nell’intero accampamento che potevano osare di non chinare il capo in sua presenza.
“Convoco Rafi,” disse Andronico.
Le due creature, senza voltarsi, allungarono ciascuno una sola mano e tirarono indietro i risvolti della tenda.
Ne uscì un odore orrendo che raggiunse Andronico e lo fece indietreggiare.
Vi fu una lunga attesa. Tutti i generali si fermarono alle spalle di Andronico e guardarono con impazienza, come anche gli altri dell’accampamento che si erano tutti girati a guardare. Nel campo calò il silenzio.
Finalmente emerse dalla tenda scarlatta una creatura magra e alta due volte Andronico, ossuta come il ramo di un olivo, vestita del tessuto scarlatto più scuro possibile, con un volto invisibile, nascosto da qualche parte nell’oscurità del suo cappuccio.
Rafi rimase lì a guardare e Andronico fu in grado di vedere solo i suoi occhi gialli, incavati nella sua carne pallidissima.
C’era un silenzio carico di tensione.
Alla fine fu Andronico a fare un passo avanti.
“Voglio Thorgrin morto,” disse.
Dopo una lunga pausa, Rafi sogghignò. Era uno suono profondo e fastidioso.
“Padri e figli,” disse. “Sempre la stessa storia.”
Andronico si sentiva ardere dentro, impaziente.
“Puoi aiutarmi?” insistette.
Rafi rimase in silenzio per molto tempo, abbastanza a lungo perché Andronico arrivasse a pensare di ucciderlo. Ma sapeva che sarebbe stato sciocco. Una volta, in un impeto di rabbia, aveva cercato di pugnalarlo e a mezz’aria il coltello gli si era sciolto in mano e l’elsa gli aveva pure bruciato il palmo. Gli ci erano voluti mesi per riprendersi dal dolore.
Quindi rimase lì, stringendo i denti e sopportando il silenzio.
Alla fine, da sotto il cappuccio, Rafi emise un ronzio.
“Le energie che circondano il ragazzo sono molto forti,” disse lentamente. “Ma tutti hanno un punto debole. Lui è stato elevato dalla magia. E la magia stessa può riportarlo a terra.”
Andronico, incuriosito, fece un passo avanti.
“Di che magia parli?”
Rafi fece una pausa.
“Un tipo di magia che non hai mai incontrato,” gli rispose. “Riservata solo a esseri come Thor. Lui è un tuo prodotto, ma è più di questo. È più potente anche di te. Se mai vivrà per dimostrarlo.”
Andronico ribolliva di rabbia.
“Dimmi come catturarlo,” gli chiese.
Rafi scosse la testa.
“Questa è sempre stata la tua debolezza,” gli disse. “Scegli di catturare e non di uccidere.”
“Prima voglio catturarlo,” ribadì Andronico. “Poi ucciderlo. Si può fare anche così, no?”
Seguì un altro lungo silenzio.
“C’è un modo di privarlo del suo potere, sì,” disse Rafi. “Senza la sua preziosa Spada, e senza il suo drago, sarà un ragazzino come tutti gli altri.”
“Mostrami come,” insistette Andronico.
Un altro lungo silenzio.
“C’è un prezzo,” rispose infine Rafi.
“Qualsiasi cosa,” disse Andronico. “Ti darò qualsiasi cosa.”
Si udì una lunga e oscura risatina.
“Penso che un giorno te ne pentirai,” rispose Rafi. “Veramente molto.”
CAPITOLO DIECI
Mentre Romolo marciava lungo la strada ben lastricata, fatta di mattoni dorati, che conduceva a Volusia – la capitale dell’Impero – i soldati vestiti con i paramenti migliori scattavano sull’attenti. Romolo camminava di fronte a ciò che restava del suo esercito, ridotto ora a poche centinaia di soldati, avvistati e sconfitti nel loro scontro con i draghi.
Romolo era furente. Era una sfilata di vergogna. Per tutta la sua vita era sempre tornato vittorioso, aveva avanzato come un eroe; ora invece tornava in silenzio, in uno stato di imbarazzo, riportando, invece di trofei e prigionieri, soldati che erano stati sconfitti.
Questo gli bruciava dentro. Era stato così stupido da parte sua andare così oltre nella ricerca della Spada; arrivare a sfidare e combattere con i draghi. Il suo ego lo aveva trascinato, avrebbe dovuto valutare meglio le cose. Era stato fortunato a scamparla, molto meno lo erano stati la maggior parte dei suoi uomini. Poteva ancora udire le loro grida e sentire l’odore della loro carne bruciata.
I suoi uomini erano stati disciplinati e avevano combattuto coraggiosamente, marciando incontro alla loro morte al suo comando. Ma dopo che da migliaia erano stati ridotti davanti ai suoi occhi a poche centinaia, aveva capito di dover fuggire. Aveva ordinato una precipitosa ritirata e i resti del suo esercito erano scivolati nei tunnel, in salvo dalle fiamme dei draghi. Erano rimasti sottoterra ed erano tornato alla capitale a piedi.
Ora eccoli lì, che entravano attraverso il cancelli che si levavano per decine di metri fino al cielo. Mentre entravano in quella città leggendaria, fatta interamente d’oro, migliaia di soldati dell’Impero andavano avanti e indietro in ogni direzione, marciando in formazione, allineandosi lungo le strade, mettendosi sull’attenti al suo passaggio. Dopotutto, senza Andronico, Romolo era de facto la guida dell’Impero e il più rispettato di tutti i guerrieri. Almeno fino alla sua perdita odierna. Ora, dopo la sua sconfitta, non sapeva come la gente lo guardasse.
La sconfitta non sarebbe potuta presentarsi in un momento peggiore. Era il momento in cui Romolo stava preparando il suo colpo di stato, si stava apprestando a dimostrare il suo potere e a detronizzare Andronico. Mentre si faceva strada attraverso quella perfetta cittadina, passando vicino a fontane, giardini accuratamente preparati, servitori e schiavi ovunque, si meravigliò che invece di tornare, come aveva previsto, con la Spada della Dinastia in mano, con più potere che mai, stesse invece facendo ritorno in una posizione di debolezza. Ora, invece di raccogliere in sé il potere che gli spettava di diritto, avrebbe dovuto scusarsi di fronte al Concilio e sperare di non perdere la sua posizione.