Морган Райс - Concessione D’armi стр 10.

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Romolo annuì e i suoi uomini trascinarono avanti una decina di schiavi, uno legato all’altro. Li legarono attorno al legno della pira, stringendo per bene le funi. I prigionieri guardavano con gli occhi sgranati per il panico. Gridavano e si dimenavano, terrorizzati, vedendo le torce pronte e rendendosi conto che stavano per essere bruciati vivi.

“NO!” gridò uno di loro. “Per favore! Ti prego! Questo no. Qualsiasi altra cosa, ma questo no!”

Romolo li ignorò. Voltò la schiena a tutti e fece diversi passi avanti, aprì le braccia e piegò il collo guardando il cielo.

“OMARUS!” gridò. “Dacci la luce per vedere! Accetta questo mio sacrificio questa notte. Stai con me nel mio viaggio nell’Anello. Dammi un segno. Fammi sapere se avrò successo!”

Romolo abbassò le mani e nello stesso istante i suoi uomini corsero in avanti e lanciarono le torce nel legno.

Si levarono grida di orrore mentre tutti gli schiavi venivano bruciati vivi. Le scintille volavano ovunque e Romolo rimase lì in piedi, il volto illuminato dalla luce delle fiamme, godendosi lo spettacolo.

Fece un cenno con la testa e i suoi uomini portarono avanti una vecchia donna, priva di occhi, il volto rugoso, il corpo rinsecchito. Diversi uomini la sorreggevano su una portantina e lei si chinò in avanti verso le fiamme. Romolo la guardò, paziente, in attesa della sua profezia.

“Avrai successo,” disse. “A meno che tu non veda i soli convergere.”

Romolo sorrise. I soli convergere? Non era mai successo in migliaia di anni.

Era felice e un piacevole calore gli riempiva il petto. Era tutto ciò che aveva bisogno di sentire. Gli dei erano con lui.

Afferrò il suo mantello, montò a cavallo e lo spronò con forza, iniziando a galoppare da solo, sulla sabbia, lungo la strada che l’avrebbe condotto all’Attraversamento Orientale, oltre il Canyon e, presto, nel cuore dell’Anello stesso.

CAPITOLO OTTO

Selese attraversava ciò che restava del campo di battaglia, Illepra al suo fianco. Procedevano insieme cercando segni di vita. Era stata una lunga e difficile camminata da Silesia e loro due erano sempre state insieme, seguendo il corpo principale dell’esercito, curandosi dei feriti e dei morti. Si erano staccate dagli altri guaritori ed erano diventate buone amiche, legate nelle avversità. Si sentivano naturalmente legate: vicine di età, simili l’una all’altra e, forse dettaglio più importante, entrambe innamorate di un MacGil. Selese amava Reece e Illepra, anche se era restia ad ammetterlo, amava Godfrey.

Avevano fatto del loro meglio per rimanere al passo con l’esercito, passando tra campi, foreste e strade fangose, fermandosi costantemente di fronte ai feriti dei MacGil. Sfortunatamente trovarli non si era rivelato difficile: ce n’erano in abbondanza tutt’attorno. In alcuni casi Selese era stata in grado di guarirli, ma in moltissimi altri il meglio che lei ed Illepra avevano potuto fare era stato medicare le loro ferite, eliminare il dolore con i loro composti e permettere loro una morte pacifica.

Era straziante per Selese. Avendo operato da guaritrice in un piccolo villaggio per tutta la vita, non si era mai occupata di questioni di tale gravità. Era abituata a trattare graffi, tagli e ferite minori, al massimo il morso di un persalcio. Ma non era abituata a uno spargimento di sangue e a una presenza di morte così massicci, né a ferite così gravi. La cosa la rattristava profondamente.

Nella sua professione Selese aveva sempre desiderato curare la gente e vederla stare bene, eppure da quando si era messa in viaggio da Silesia non aveva visto altro che un’incessante scia di sangue. Come potevano gli uomini fare una cosa del genere gli uni agli altri? Quei feriti erano tutti fratelli di qualcuno, erano padri e mariti. Come poteva il genere umano essere così crudele?

Selese era ancora più straziata dalla propria mancanza di abilità nell’aiutare ogni persona che incontrava. Le loro scorte erano limitate a ciò che erano in grado di trasportare, e dato il lungo viaggio non era molto. Gli altri guaritori del regno erano sparpagliati ovunque, in tutto l’Anello. Erano tutti insieme un esercito, ma erano comunque troppo pochi e le scorte scarseggiavano. Senza vagoni adeguati, senza cavalli e senza una squadra di aiutanti, quello era tutto ciò che lei poteva trasportare.

Selese chiuse gli occhi e fece un respiro profondo mentre camminava ripassando nella sua mente i volti dei feriti. Moltissime volte le era toccato prendersi cura di un soldato ferito a morte che gridava di dolore, aveva visto i suoi occhi diventare vitrei e gli aveva dato del blatox. Si trattava di un efficace antidolorifico e calmante. Ma non bastava per curare una ferita infetta, non aveva il potere di bloccare l’infezione. Senza tutte le sue scorte quello era il meglio che poteva fare. Questo le faceva venire voglia di piangere e gridare allo stesso tempo.

Selese e Illepra si inginocchiarono ciascuna di fronte a un soldato ferito a pochi passi l’una dall’altra, entrambe impegnate nel suturare un taglio con ago e filo. Selese era stata costretta a usare quell’ago un po’ troppe volte e avrebbe voluto averne uno pulito. Ma non aveva scelta. Il soldato gridava di dolore mentre lei ricuciva la lunga ferita che gli tagliava il bicipite e che non sembrava voler rimanere chiusa. Selese premette un palmo sul braccio dell’uomo cercando di arrestare il flusso di sangue.

Ma era una battaglia persa. Se solo fosse giunta da quel soldato un giorno prima, tutto sarebbe andato bene. Ma ora il suo braccio era verde e lei stava prevenendo l’inevitabile.

“Andrà tutto bene,” gli disse Selese.

“Non è vero,” rispose lui guardandola con occhi di morte. Selese aveva visto quello sguardo ormai troppe volte. “Dimmi. Morirò?”

Selese fece un respiro profondo ed esitò. Non sapeva come rispondere. Odiava essere disonesta. Ma non poteva sopportare di dirgli la verità.

“Il nostro destino è nelle mani di chi ci ha creato,” disse. “Non è mai troppo tardi per nessuno di noi. Bevi,” concluse, prendendo una fiala di blatox da un sacchettino di pozioni che teneva alla vita, appoggiandola alle labbra dell’uomo e accarezzandogli la testa.

Lui ruotò gli occhi indietro e sospirò, tranquillo per la prima volta.

“Mi sento bene,” disse.

Poco dopo chiuse gli occhi.

Selese sentì una lacrima scorrerle lungo la guancia e velocemente se la asciugò.

Illepra finì con il suo ferito ed entrambe si alzarono in piedi, continuando a camminare lungo quell’interminabile sentiero, sorpassando un cadavere dopo l’altro. Si diressero inevitabilmente verso est, seguendo il corpo principale dell’esercito.

“Ma stiamo almeno facendo qualcosa qui?” chiese alla fine Selese, dopo un lungo silenzio.

“Certo,” rispose Illepra.

“Non sembra che sia proprio così,” ribatté Selese. “Ne abbiamo salvati così pochi e persi talmente tanti.”

“E perché non considerare quei pochi,” le chiese Illepra. “Non valgono niente?”

Selese rifletté.

“Certo che sì,” disse. “Ma gli altri?”

Selese chiuse gli occhi e cercò di immaginarli, ma ormai erano una serie confusa di volti.

Illepra scosse la testa.

“Non pensi nel modo giusto. Sei una sognatrice. Troppo ingenua. Non puoi salvare tutti. Non l’abbiamo iniziata noi questa guerra. Ci siamo solo messe al seguito.”

Continuarono a camminare in silenzio, procedendo sempre più a est, oltre campi di corpi. Selese era felice, almeno, per la compagnia di Illepra. Si erano fatte compagnia  e si erano fornite sostegno a vicenda, condividendo esperienze e rimedi lungo il cammino. Selese era sorpresa dalla vasta gamma di erbe possedute da Illepra, alcune delle quali neppure conosceva; Illepra, dal canto suo, era continuamente sorpresa dagli unguenti unici che Selese aveva scoperto nel suo piccolo villaggio. Le due si completavano bene.

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