Guido Pagliarino - L’ira Dei Vilipesi стр 2.

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Il sottufficiale era giunto in piazzetta del Nilo sulla propria lenta motoretta modello La Piccola Italiana

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Il Branduardi s'era accodato alla camionetta, perdendo però terreno per la bassa velocità della motoretta ormai vecchia e sfiatata. All’arrivo, mentre il fermato già era in camera di sicurezza, il maresciallo era salito al proprio ufficio nella Sezione Delitti di Sangue al secondo piano, stanza che divideva con un brigadiere e un agente dattilografo, e con flemma s’era preparato un caffè di guerra, un surrogato, con la propria macchinetta napoletana che teneva nell’armadio insieme a un fornellino elettrico a incandescenza. Se l’era sorbito bollente dopo averlo addolcito con una pastigliuccia di saccarina, non perché diabetico ma in quanto lo zucchero, dall’entrata in guerra, era introvabile per i comuni mortali. S’era quindi fumato una sigaretta Serenissima Zara con calma altrettanto celeste, assaporandola fin quasi all’esaurimento della cicca che, per le ultime due boccate, aveva trattenuto infilzandola con uno spillo, come in quei tempi di carestia e sigarette senza filtro non pochi fumatori usavano fare; e finalmente, a passo lemme, aveva portato il foglietto col rapporto, non più di venti metri sullo stesso piano, a uno dei vice comandanti della Sezione Delitti di Sangue, un certo commissario capo Riccardo Calvo ch’era di turno quella notte fin alle ventiquattro. Alle ore zero e pochi secondi il Branduardi se n’era andato a casa a dormire e, poco dopo, pure il Calvo dopo aver lasciato il rapporto del maresciallo sulla scrivania del suo pari grado subentrante, il dottor Giuliano Boni.

L’uomo in salopette aveva seguitato a starsene chiuso in camera di sicurezza.

Finalmente, su ordine del commissario capo Boni, il caso Rosa Demaggi era stato rifilato a un quasi imberbe vice commissario montato in servizio a mezzanotte, il dottor Vittorio D’Aiazzo, da poco meno d'un anno attivo in Pubblica Sicurezza e, fin dal primo giorno, assegnato alla rognosa Sezione Delitti di Sangue.

Erano circa le 3 di notte del 27 settembre 1943 e l’insurrezione che la Storia ricorda come Le Quattro Giornate di Napoli stava per scoccare: la pignatta dell’angariatissima città stava ribollendo e la temperatura era salita ormai a tale grado che impossibile sarebbe stato, per il tedesco occupante, impedirne l’eruzione ardente.

Capitolo 2

Il sentire del popolo di Partenope era rimasto oscuro allo sprezzante invasore nazista e la paura che questi aveva inteso diffondere in città s’era risolta in bollore d’animo e desiderio di ribellione. Facimmo ‘a uèrra a chilli strunzi zellosi

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Il 25 luglio l’Italia aveva esultato per la caduta nella notte del regime, apparsa definitiva con Mussolini esautorato dallo stesso Gran Consiglio del Fascismo e fatto arrestare dal re, e col nuovo Governo Badoglio non più fascista, anche se non democraticamente eletto; ma era stato anzitutto l’abbaglio che il conflitto fosse finito a far gioire la nazione. Tuttavia, ben presto nel Paese s’erano alzate lamentazioni che a Napoli avevano presentato toni pittoreschi lungo i vicoli e all’ombra dei bassi, come: Chillo capucchióne d’o nuvièllo Càpo ‘e Guviérno

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La tradizionale durezza bellica teutonica era divenuta, se possibile, ancora più barbara, perché eccitata da isolati attacchi sferrati da cittadini col supporto di marinai delle navi alla fonda della Regia Marina: s’era trattato d’una primissima, sporadica resistenza spontanea, non ancor collegata ai partiti avversari del nazifascismo, una ribellione iniziata in via Santa Brigida dove, nella mattina del 9, una trentina di residenti aveva assalito una squadra della Wehrmacht, dopo che uno di quei soldati, come al tiro a segno d’un parco divertimenti, aveva sparato col proprio fucile d’ordinanza Mauser Kar 98k all’inerme garzone dodicenne d’un negozio, che si trovava sull’uscio dell’esercizio a prendere un po' di sole.

Aveva dato il la a quella compagine d'umiliati partenopei il giovane vice commissario che abbiamo già incontrato di sfuggita, il dottor Vittorio D’Aiazzo, il quale se ne stava transitando a piedi nei pressi quando il soldato tedesco aveva mirato e fatto fuoco contro il ragazzino: il giovane ufficiale della Pubblica Sicurezza, indignatissimo, aveva sparato senza mirare, da dietro un angolo, nel mucchio teutonico con la sua Beretta M34 d’ordinanza, svuotandone il caricatore e uccidendo due soldati, S’era quindi eclissato attraverso un vicolo laterale, non tanto per paura del nemico ma per timore di noie, o peggio, da parte dei superiori.

Mentre si dileguava, coloro che della trentina d'esacerbati civili presenti avevano in tasca coltelli, cioè quasi tutti, li avevano estratti e la massa, accesa al calor bianco dalla vista dei cadaveri nemici e dall'immagine d’o sbenturàto

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Nello stesso tempo in altra zona di Napoli, del tutto indipendentemente, un gruppo d’improvvisati combattenti aveva assalito un manipolo di guastatori tedeschi, che stava cercando d'occupare la sede della compagnia telefonica, e l’aveva messo in fuga. Il plotone germanico s’era vendicato catturando più in là e fucilando due carabinieri in servizio di ronda. Non molto dopo, un’intera compagnia tedesca d'assaltatori era sopraggiunta davanti al palazzo dei telefoni e, presto, aveva avuto ragione degl’insorti che lo presidiavano. Eppure, contro i propositi dei nazisti, era montata ancor più la collera degli umiliati napoletani e, il giorno seguente, ai piedi della collina di Pizzofalcone tra la piazza del Plebiscito e i giardini sottostanti, c’era stata una vera e propria battaglia, accesa da alcuni marinai, coi loro moschetti ’91 e bombe a mano, e alimentata da molti civili armati di mitra MP80 e granate model 24, sottratti il giorno precedente agli occupanti, e di improvvisate bottiglie molotov. I ribelli avevano impedito il passaggio di un’intera colonna di camion e camionette germanici. C’erano stati sei morti, tre marinai italiani che avevano combattuto in prima fila e altrettanti soldati tedeschi, e inoltre molti feriti da entrambe le parti.

Pesanti provvedimenti e gravi rappresaglie erano seguiti da parte tedesca, su ordine del fresco comandante della città colonnello Walter Scholl che, il giorno 12, aveva assunto ufficialmente il potere assoluto sulla piazza. Un suo proclama aveva imposto la consegna delle armi, forze di pubblica sicurezza a parte, il coprifuoco alle ore 21 e lo stato d’assedio per l'intera città, mentre erano stati fucilati non solo i militari e i civili caduti prigionieri, ma diversi cittadini rastrellati a bella posta.

I tedeschi s’erano scatenati del tutto dopo il giorno 12, saccheggiando, distruggendo e incendiando; per prima era stata data alle fiamme l’università, dopo avervi fucilato innanzi un inerme marinaio italiano costringendo i cittadini presenti non solo ad assistere all’esecuzione, ma ad applaudirla. Fino al 25 settembre, sebbene dopo i primi giorni la città non avesse più agito apertamente contro gli occupanti, le ronde tedesche avevano catturato chiunque, non essendo poliziotto, fosse stato sorpreso per via in divisa italiana o, essendo in borghese, semplicemente fosse sembrato sospetto.

Napoli aveva taciuto ma sfrigolando e preparandosi all’insorgenza. In particolare, militari sbandati erano stati raccolti a uno a uno da membri dei partiti antinazifascisti e nascosti e addestrati alla guerriglia, molti entro i locali sotterranei del liceo Sannazaro, prima sede della neonata resistenza napoletana.

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