Anton Barrili - Il Libro Nero стр 8.

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La ballata del pellegrino, e la sarcastica chiusa, fecero una grande impressione sulla nobile comitiva. Gli amici del conte Ugo e i suoi vassalli si guardarono in viso trasognati; indi tornarono a guardare il pellegrino, sulle cui labbra scorgevasi ancora il sogghigno di Aporèma. A mastro Benedicite, allora più che mai ricaduto in balìa delle sue superstiziose paure, venne in mente che fosse proprio lui quello spirito maligno del quale aveva cantate le imprese; epperò il degno strozziere se ne rimase mutolo, a capo chino, fantasticando sulle conseguenze di quella visita notturna, e non badando punto a citazioni latine; segno che il suo turbamento era grave.

Anche il conte Ugo era muto, sebbene non partecipasse alle ubbìe del suo fidato vassallo e non vedesse nell'ospite di Roccamàla che un uomo come tutti gli altri suoi commensali. La filosofia dello sconosciuto lo aveva profondamente commosso, ed egli era rimasto inerte sulla scranna, con lo sguardo fiso ma disattento, come di chi sembra aguzzar l'occhio verso un punto dello spazio, e non fa in quella vece che seguire il corso vagabondo d'immagini confuse, le quali non hanno per anche presa la forma di un pensiero.

Il primo a rompere quel silenzio, e direi quasi quell'incantesimo, fu il biondo Fiordaliso, pieno il cuore della sua giovanile baldanza.

 Leggiadra è la vostra ballata, messer pellegrino; ma egli mi sembra che la storia da voi narrata non sia molto d'accordo con la Bibbia, segnatamente nella chiusa.

La nota del paggio era girata per la mente a tutti i commensali; epperò eglino, udendola espressa dalle parole dell'adolescente, gli tennero bordone con un cenno del capo.

Ma il pellegrino non era uomo da darsi vinto per simili frasche. Crollò le spalle, fece una smorfia e rispose con aria benigna e compassionevole:

 Ah! perchè voi non avete letto che la Volgata, messer Fiordaliso. La storia vera è quella che v'ho raccontata io, e si legge nel testo caldaico della Vaticana. Nella Volgata s'è tenuto altro metro, per tema che la lettura avesse a riuscire troppo sconsolante; della quale sollecitudine per le coscienze timorate vuolsi saper grado alla Chiesa.

 Per ventura le sono finzioni poetiche dei tempi andati!  disse Ottone di Cosseria.

 Sì, e non possono mutare il verace aspetto delle cose;  soggiunse Enrico Corradengo.  L'amicizia, a malgrado dei vostri biblici esempi, è un alto e durevole affetto.

 Giobbe lo sa, mio nobil sere!  esclamò il pellegrino.

 Ah, lasciamolo in pace!  rispose il Corradengo.  Io, per me, tengo che se egli avesse vissuto ai tempi nostri, tra cavalieri, nessuno degli amici suoi lo avrebbe abbandonato nella disgrazia, e ognuno si sarebbe recato a ventura di spartire con lui.

Il sogghigno di Aporèma si dipinse anco una volta sulle labbra del pellegrino. Il Corradengo, turbato, non disse più altro.

 E non si dirà nulla della donna del principe d'Idumea?  entrò Ansaldo di Leuca.  Io mi penso che questa dama, se pure c'è stata, ed ha operato secondo il detto della vostra canzone, messer pellegrino, non era donna di gentil sangue. L'amore è fortissimo e nobilissimo affetto, che vince ogni ostacolo, che sopravvive ad ogni sciagura, come c'insegnano esempi molti e recenti. Io vi prego, messere, se avete caro il vostro buon nome di trovatore, a non farvi udire nè da Matilde, contessa di Sciampagna, nè dalla marchesina di Monferrato, nè da Giovanna di Torrespina, la più savia come la più leggiadra gentildonna di cui cavaliero portasse mai i colori.

Al nome della castellana di Torrespina, l'ospite sconosciuto fece un volto più umano, come chi intenda ad entrare nelle grazie di qualcheduno, o non voglia, per cortesia, far contro a giudizii che risguardano le persone.

 Tolga il buon sire Iddio,  rispose quindi ad Ansaldo,  che io voglia farmi udire a cantar sul liuto fuori di questa nobil brigata. Vi ho poi detto, messeri, che io non sono trovatore. La canzone di quel biondo alunno delle Muse mi ha messo in vena, e mi sono provato anch'io a dirvi la mia, tanto per fargli intendere quello che una lunga esperienza ha insegnato ad un povero vecchio; che tale io mi sono da lunga pezza, e abbandonato da tutte quelle dolci fantasie che illeggiadriscono la vita ai giovani cavalieri. Ma io so bene che i miei canti non potrebbero andare a grado di tutti, come so che la verità non è mai bella, nè lieta ad udirsi.

Il conte Ugo uscì finalmente allora dal suo silenzio.

 Messer pellegrino,  diss'egli con molta gravità,  la vostra ballata è triste assai, ma bella del pari, e vi pone così alto nella mia estimazione che io non saprei dirvi di più. Voi siete il mio ospite per tutto quel tempo che a voi piacerà, e quando la mia casa vi riesca troppo uggiosa dimora, della qual cosa io sarò dolentissimo, il miglior ronzino, o palafreno di Roccamàla rimarrà vostro, e vostro il migliore de' miei falconi, se il passatempo di sant'Uberto v'è grato.

 Voi siete, messer lo conte,  disse il pellegrino inchinandosi profondamente,  il più magnifico e liberal cavaliero che al mondo sia.

A Fiordaliso si sbiancarono le guancie; delle labbra non saprei dirvi, perchè il biondo adolescente, vinto nella sua poetica tenzone al cospetto e per sentenza di conte Ugo, le aveva raccolte tra i denti, e premea forte, in atto dispettoso. Era quello il primo giorno di sua vita che cosa alcuna gli avesse a dolere; e il cominciamento fu amaro.

Tanto per fare alcun che, e per non addimostrare il suo broncio, il povero paggio andò a togliere il liuto dalle mani del pellegrino e lo recò fuor della sala.

 Va, stromento d'inferno!  gridò egli stizzito, buttandolo su d'una cassapanca che era nella sua camera.  E adesso aspetta che io ti ripigli!

Il povero liuto, che non ci avea colpa, risuonò alla percossa; le corde mandarono un gemito, quasi un accento di rimprovero. Ma il paggio non si pentì dell'opera sua, e chiusosi l'uscio dietro le spalle, se ne andò a parare il vento su d'un terrazzo, molto lunge dalla sala dov'erano i convitati del conte.

CAPITOLO IV

Che cosa fosse, e perchè temuta, la torre del Negromante

Levate le mense a notte alta, conte Ugo accomiatò gli amici, non già dal castello, perchè erano ospiti suoi, ma dalla sala del convito. Allora si fecero innanzi i famigli, che già stavano pronti con le torce di resina in mano, e scortarono ognuno dei nobili cavalieri nelle stanze a lui assegnate.

Per tal modo, non rimasero presso il conte Ugo che il pellegrino e mastro Benedicite, strozziere, maggiordomo, ser faccenda di Roccamàla.

Ugo era sopra pensieri, poichè la conversazione e il canto del suo nuovo ospite lo avevano fortemente turbato; ma siccome egli era gentil cavaliere, la mestizia non poteva fargli dimenticare il debito suo verso gli ospiti.

 Messer pellegrino  diss'egli  a me duole di non potere usarvi tutta quella cortesia che si vorrebbe per un uomo della vostra levatura. Roccamàla è un ampio maniero, ma pieno d'amici, ed io non posso offerirvi che un alloggiamento indegno di voi salvo il caso che vi acconciate a riposare nella torre del Negromante.

 Che dite voi, messer lo conte?  gridò mastro Benedicite.  Farlo alloggiar nella torre

 No, io non ho detto questo; sibbene ho voluto far intendere al nostro ospite come io non possa offerirgli una stanza degna di lui.

 Che cos'è questa torre del Negromante?  domandò il pellegrino.

 Ah, per darvene una giusta notizia, mi bisognerebbe raccontarvi una storia troppo lunga, e tale da farvi addormentare sulla scranna. Roccamàla, messer pellegrino, è un triste luogo, ed io mi penso che la tristezza sua entri in gran parte nell'umor nero che ha regnato su sette generazioni de' miei antenati. Si narrano di questo castello le più paurose leggende Figuratevi! Il conte Ugo, primo dei Roccamàla, nella sua vecchiaia si era dato anima e corpo allo studio delle scienze naturali, e la buona gente dei dintorni fantasticò che egli avesse commercio con lo spirito maligno. Quando egli venne a morte, quella torre, dov'egli era uso dimorare, e che ha tolto da lui il nome di Negromante, fu argomento di terrore per tutti, e pochi ardirono d'allora in poi di passarvi la notte.

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