Io le offersi dunque la mia fraternità; ed ella accettò, semplicemente. Se ella era triste, io era più triste ancóra, pensando che noi avevamo sepolto il nostro amore per sempre, senza speranza di resurrezione; pensando che le nostre labbra non si sarebbero forse unite mai più, mai più. E, nella cecità del mio egoismo, mi parve che ella dovesse in cuor suo essermi grata di quella mia tristezza che io già sentivo immedicabile, e mi parve che ella dovesse anche esserne paga e consolarsene come dun riflesso del lontano amore.
Ambedue un tempo avevamo sognato non pur lamore ma la passione fino alla morte, usque ad mortem. Ambedue avevamo creduto al nostro sogno e avevamo proferito più duna volta, nellebrezza, le due grandi parole illusorie: Sempre! Mai! Avevamo perfino creduto allaffinità della nostra carne, a quellaffinità rarissima e misteriosa che lega due creature umane col tremendo legame del desiderio insaziabile; ci avevamo creduto perché lacutezza delle nostre sensazioni non era diminuita neppure dopo che, avendo noi procreato un nuovo essere, loscuro Genio della specie aveva raggiunto per mezzo di noi il suo unico intento.
Lillusione era caduta; ogni fiamma era spenta. La mia anima (lo giuro) aveva pianto sinceramente su la ruina. Ma come opporsi a un fenomeno necessario? Come evitare linevitabile?
Era dunque gran ventura che, morto lamore per le necessità fatali dei fenomeni e quindi senza colpa di alcuno, noi potessimo ancora vivere nella stessa casa tenuti da un sentimento nuovo, forse non meno profondo dellantico, certo più elevato e più singolare. Era gran ventura che una nuova illusione potesse succedere allantica e stabilire tra le nostre anime uno scambio di affetti puri, di commozioni delicate, di squisite tristezze.
Ma, in realtà, questa specie di retorica platonica a qual fine tendeva? Ad ottenere che una vittima si lasciasse sacrificare sorridendo.
In realtà, la nuova vita, non più coniugale ma fraterna, si basava tutta su un presupposto: su lassoluta abnegazione della sorella. Io riconquistavo la mia libertà, potevo andare in cerca delle sensazioni acute di cui avevano bisogno i miei nervi, potevo appassionarmi per unaltra donna, vivere fuori della mia casa e trovare la sorella ad aspettarmi, trovare nelle mie stanze la traccia visibile delle sue cure, trovare sul mio tavolo in una coppa le rose disposte dalle sue mani, trovare da per tutto lordine e leleganza e il nitore come in un luogo abitato da una Grazia. Questa mia condizione non era invidiabile? E non era straordinariamente preziosa la donna che consentiva a sacrificarmi la sua giovinezza, paga soltanto di essere baciata con gratitudine e quasi con religione su la fronte altera e dolce?
La mia gratitudine talvolta diveniva così calda che si espandeva in una infinità di delicatezze, di premure affettuose. Io sapevo essere il migliore dei fratelli. Quando ero assente, scrivevo a Giuliana lunghe lettere malinconiche e tenere che spesso partivano insieme con quelle dirette alla mia amante; e la mia amante non avrebbe potuto esserne gelosa, allo stesso modo che non poteva esser gelosa della mia adorazione per la memoria di Costanza.
Ma, sebbene assorto nellintensità della mia vita particolare, io non sfuggivo alle interrogazioni che di tratto in tratto mi sorgevano dentro. Perché Giuliana persistesse in quella meravigliosa forza di sacrificio, bisognava chella mi amasse dun sovrano amore; e, amandomi e non potendo essere se non la mia sorella, doveva portar chiusa in sé una
disperazione mortale. Non era dunque un forsennato luomo che immolava, senza rimorso, ad altri amori torbidi e vani quella creatura così dolorosamente sorridente, così semplice, così coraggiosa? Mi ricordo (e la perversione mia di quel tempo mi stupisce) mi ricordo che tra le ragioni che io dissi a me stesso per acquietarmi, questa fu la più forte: La grandezza morale risultando dalla violenza dei dolori superati, perché ella avesse occasione dessere eroica era necessario chella soffrisse quel chio le ho fatto soffrire.
Ma un giorno io mavvidi chella soffriva anche nella sua salute; mavvidi che il suo pallore diveniva più cupo e talvolta si empiva come di ombre livide. Più duna volta sorpresi nella sua faccia le contrazioni duno spasimo represso; più duna volta ella fu assalita, in mia presenza, da un tremito infrenabile che la scoteva tutta e le faceva battere i denti come nel ribrezzo di una febbre subitanea. Una sera, da una stanza lontana mi giunse un grido di lei, lacerante; e io corsi, e la trovai in piedi, addossata a un armario, convulsa, che si torceva come se avesse inghiottito un veleno. Mi afferrò una mano e me la tenne stretta come in una morsa.
Tullio, Tullio, che cosa orribile! Ah, che cosa orribile!
Ella mi guardava, da presso; teneva fissi nei miei occhi i suoi occhi dilatati, che mi parvero nella penombra straordinariamente larghi. E io vedevo in quei larghi occhi passare, come a onde, la sofferenza sconosciuta; e quello sguardo continuo, intollerabile, mi suscitò dun tratto un terrore folle. Era di sera, era il crepuscolo, e la finestra era spalancata, e le tende si gonfiavano sbattendo, e una candela ardeva su un tavolo, contro uno specchio; e, non so perché, lo sbattito delle tende, lagitazione disperata di quella fiammella, che lo specchio pallido rifletteva, presero nel mio spirito un significato sinistro, aumentarono il mio terrore. Il pensiero del veleno mi balenò; e in quellattimo ella non poté frenare un altro grido; e, fuori di sé per lo spasimo, si gittò sul mio petto perdutamente.