Si voltò e osservò la stazione deserta. Si trattava più che altro di una piccola costruzione, posta accanto a una piattaforma di cemento con dei gradini che portavano a essa. L’insegna di metallo con il nome della stazione non era più grande di un cartello stradale e sembrava consumata dalle intemperie. La giornata uggiosa aveva lasciato il posto alla nebbia, e ora che il treno era ripartito, l’unico suono era il sussurro ovattato del vento tra migliaia di alberi. Dove diavolo è l’autista? si chiese. Anche mentre si guardava intorno, metà della sua mente era ancora concentrata sulle strane parole del capotreno. Cosa intendeva con la bestia? Perché nessun altro gliene aveva parlato? Si trattava forse di un centro nevralgico per i cacciatori di Sasquatch? O il territorio di un feroce grizzly? Un attimo! C’erano dei grizzly nel Maine, per caso? Era convinta che ci fossero solo orsi bruni. Tuttavia, anche un orso bruno avrebbe potuto sicuramente passare per una bestia selvaggia.
Quando la mano gentile di qualcuno le toccò la spalla, strappandola dai suoi pensieri, urlò e balzò a un metro da terra.
«Mademoiselle Carson? Veronica Carson?» L’accento dell’uomo di mezza età era inconfondibilmente francese e pronunciò il suo nome Vehr-oh-nee-ka. Lei si portò rapidamente la mano sul collo, dove il suo battito era ancora accelerato.
«Sì» annuì, leggermente senza fiato. «Mi dispiace tanto. Non l’ho sentita arrivare.»
L’uomo, che indossava un abito scuro e persino un berretto da autista, sorrise con comprensione. «La nebbia. Quando è così fitta, beh... è tutto più ovattato.»
«Certo, ha senso.» Lei si sentì sollevata da una spiegazione così semplice.
Lui le porse la mano. «Claude Hormet, al servizio di Monsieur Reynard da molti anni.»
Veronica tese la sua, e ricevette una solida stretta di mano. «Piacere di conoscerla, Monsieur Hormet.»
Il sorriso dell’uomo si allargò alla pronuncia del suo nome, e le sembrò di vedere una certa sorpresa balenare nei suoi occhi «È un vero piacere conoscerla, Mademoiselle. Ci era stato detto che parlava bene il francese e posso confermarlo, se non le dispiace che lo dica.»
«Grazie. È molto gentile da parte sua. Sarei felice di cambiare lingua, se lo desidera, così potrebbe davvero giudicare.»
Monsieur Hormet sorrise di nuovo. «Mi piacerebbe, magari più tardi. Per ora la accompagno allo château.»
Le prese la borsa e la condusse a una berlina Lincoln nera e lucida che sembrava in perfette condizioni nonostante dovesse avere almeno trent’anni. Le aprì la portiera posteriore, e quando lei si accomodò sul sedile, le fece un piccolo inchino prima di richiuderla. Non sentì nemmeno il baule chiudersi dopo che lui ci ebbe messo dentro la valigia, e quando cominciarono a muoversi, il viaggio fu così tranquillo che le sembrò di fluttuare.
Monsieur Hormet non parlò più, e intuendo che forse sarebbe stato considerato troppo informale per lei iniziare una conversazione, anche Veronica rimase in silenzio. Invece, tirò fuori la cartellina con una copia del suo curriculum e una lista di referenze. Riesaminò di nuovo i suoi appunti, ma erano piuttosto scarsi. Dalle poche informazioni che avevano accompagnato la descrizione dell’impiego, non sapeva molto di quell’offerta e nemmeno del suo futuro datore di lavoro, a parte il suo cognome, così provò di nuovo nella sua testa quello che avrebbe potuto dire in merito alle sue esperienze professionali.
Era così immersa nei suoi pensieri, a suo agio sulla sontuosa pelle dei sedili, che non alzò lo sguardo finché la macchina non iniziò a rallentare. E allora…Wow. La dimora che si profilò davanti a lei era davvero un castello, fatto di pietra con torri e torrioni. Se ci fosse stato un fossato e non si fosse trovata nel Maine, non si sarebbe sorpresa se qualcuno le avesse detto che era di epoca medievale.
Doveva essere trasalita per la sorpresa, perché Monsieur Hormet catturò il suo sguardo nello specchietto retrovisore.
«Ah, le château è bello, vero?»
Osservando le linee della massiccia struttura, Veronica notò che erano anche sorprendentemente delicate. Anche se grande, era anche un capolavoro architettonico, equilibrato ed elegante. Cercando ancora di abbracciare con lo sguardo ogni parte dello château, rispose con entusiasmo: «Oh sì, assolutamente stupendo!»
Si fermarono proprio davanti ai gradini, e Monsieur Hormet si avvicinò per aiutarla a scendere dalla macchina. L’aria che le accarezzò il viso era più fresca di quella umida e pesante della stazione, e trasportava l’inconfondibile sapore salmastro dell’oceano. Curvò le labbra in un piccolo sorriso quando percepì il lontano infrangersi delle onde sulle rocce. Katrin sarebbe stata felicissima di sapere che la sua ipotesi era stata, almeno in parte, corretta.
«Se vuole seguirmi, Mademoiselle, la accompagno nel salone.» Monsieur Hormet diede un’occhiata alle finestre anteriori e indicò un piccolo movimento all’interno. «Eveline farà sapere a Monsieur Reynard del suo arrivo.»
Piegando il collo nel modo più discreto possibile per guardarsi intorno, Veronica lo seguì su per un gran numero di gradini di pietra, ed entrò nello château. Riuscì solo a intravedere l’enorme atrio d’ingresso prima di percorrere un ampio corridoio che conduceva in una stanza che sembrava una specie di salotto formale. C’erano diversi posti a sedere intorno alla stanza, e lui le fece cenno di accomodarsi su una poltrona dallo schienale diritto, nel gruppo più vicino alle finestre. Anche con la nebbia, si poteva comunque capire che le finestre affacciavano sull’oceano, una distesa grigio-verde di acqua gelida dell’Atlantico; la vista sembrava più maestosa che invitante, e le piaceva molto.
Combattendo l’impulso di premere il naso contro le vetrate, si sedette su una sedia in quello che sperava fosse un atteggiamento professionale e dignitoso. Prese di nuovo la cartellina e attese. C’era un orologio decorato e dorato, che sembrava un’antichità che sarebbe stata perfetta per il museo d’arte di Boston, e il suo ticchettio risuonava nella stanza altrimenti silenziosa. Al click della maniglia della porta che girava, balzò in piedi e si voltò per salutare la persona che le avrebbe fatto il colloquio. La figura che entrò era considerevolmente più bassa e più veloce di quanto si fosse aspettata, però.
Mentre si precipitava verso di lei a tutta velocità, Veronica vide un bambino con una massa di capelli biondo dorato, occhi azzurri e guance rosee indice di buona salute. Il suo viso felice era illuminato da un enorme sorriso. Veronica si preparò per un possibile impatto, ma il bimbo si fermò bruscamente proprio di fronte a lei e la squadrò con curiosità.
«Sei carina» disse in francese, «ma non mi piace il tuo cappotto. Mi hanno insegnato a non dire “mi fa schifo” o “brutto”.» La guardò in attesa.
Veronica soffocò una risata, lanciando uno sguardo al suo cappotto. Era un capo che aveva acquistato per i colloqui, e interiormente concordava che non fosse la cosa più attraente che possedeva, ma si trattava più di una questione di praticità che di moda. Ma comunque...
«Sembra che tu sia stato attento, allora» rispose in francese, aggirando la domanda. Posò sulla sedia la cartellina che teneva ancora in mano, e si accovacciò in modo da essere all’altezza degli occhi del bambino. «Come ti chiami? Io sono Veronica.»
«Jean Philippe. Yvette dice che sei qui per prenderti cura di me, ma solo se piacerai a papà. Maman non c’è più. È morta. Anche il nostro cane è morto. A volte sono triste e piango, ma papà dice che va bene.» Il cuore di Veronica si strinse a quelle parole ingenue, ma dovette sopprimere un’altra risata per quello che lui aggiunse dopo. «Mi hai portato un regalo? Papà mi porta sempre un regalo e lo nasconde in una delle tasche. Anche oncle Marius. È per questo che indossi quel cappotto, per nascondere i regali?» le chiese, osservando il suo abbigliamento con più entusiasmo.