Джек Марс - Un’esca per Zero стр 12.

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"Dovrebbe essere ancora caldo", aggiunse.

"Spasiba", disse Mischa, quasi troppo a bassa voce per essere sentita. Grazie.

"Ti danno da mangiare abbastanza?"

La ragazza si limitò a scrollare le spalle.

Maria chiuse gli occhi per un momento per reprimere le lacrime che improvvisamente le stavano salendo. Non sapeva perché si emozionasse così tutte le volte che veniva a trovarla, ma almeno una volta per ogni visita veniva colpita da un'onda di dolore nel vedere una ragazza così giovane rinchiusa in una cella sotterranea.

Mischa faceva parte del gruppo cinese che era in possesso dell'arma ad ultrasuoni. Il suo capo era una russa dai capelli rossi, una ex spia di nome Samara che si era unita ai cinesi in un complotto terroristico sul suolo americano progettato per apparire come un attacco di matrice russa. Samara e tutti i suoi compagni erano ormai morti. Solo Mischa era sopravvissuta. Eppure nessun paese la reclamava, era stata rinnegata dal mondo intero.

La ragione principale per cui era rimasta nel sotterraneo di Langley non era certamente perché la CIA avesse intenzione di mandarla nel sito nero marocchino. No, era perché l'agenzia non poteva effettivamente dimostrare che avesse commesso dei crimini. Nessuno della squadra, né Zero, né Strickland, e certamente nemmeno Maria, aveva fatto dichiarazioni contro di lei o raccontato in dettaglio le sue azioni.

Semplicemente non sapevano cosa farsene di una bambina potenzialmente pericolosa, a cui probabilmente avevano lavato il cervello, molto ben addestrata e decisamente letale. E così rimase lì.

Ma Maria non vedeva nulla di tutto ciò. Vedeva semplicemente una ragazza che, nel corso di un paio di mesi, aveva mostrato una grande vulnerabilità, aveva dimostrato di avere ancora un lato umano.

"Che c'è?" Chiese Mischa.

Maria si rese conto di avere ancora gli occhi chiusi. Li aprì e sorrise quando vide la ragazza che la guardava interrogativa. "Sai… per essere sincera, sono triste".

“Perché?" Lo chiese con indifferenza, come se fosse una domanda retorica.

"Sono triste per te", disse Maria. "Che devi stare qui".

"Sono stata in posti peggiori", disse semplicemente la ragazza.

"Dico sul serio", le disse Maria con fermezza. "Meriti qualcosa di meglio. Non sei un animale. Forse…” Si fermò. Forse potrei negoziare per procurarti una cella con una finestra, fu sul punto di dire.

Ma sarebbe stata comunque una cella.

Maria aveva cominciato a far visita alla ragazza solo due giorni dopo la sua incarcerazione, e da allora veniva due volte la settimana. Durante le visite Mischa non la guardava neppure, né le diceva mai una parola. Le visite successive servirono per convincere la ragazza che Maria non andava a trovarla per ferirla o torturarla. Maria non cercava informazioni. In realtà, non voleva che la ragazza parlasse della sua vita passata, e quella era la verità assoluta; la cella era monitorata sia da video che da registrazioni audio e qualsiasi discussione sul passato di Mischa avrebbe potuto svelare indiscrezioni che le avrebbero procurato un biglietto di sola andata verso un luogo ben peggiore.

Maria aveva impiegato sette settimane per capire che il colore preferito della ragazza era il viola e che le piacevano i Tootsie Rolls, anche se era chiaro che probabilmente Mischa non aveva mai assaggiato altri tipi di caramelle. Così Maria gliene portò un po'. Dopodiché divenne un rito per lei portarle un po' di cibo e, con il permesso di Ben, la guardia, lo faceva scivolare attraverso la piccola porta rettangolare nella cella.

Maria sapeva di essere osservata, ma non le importava. In effetti, era abbastanza certa che il motivo per cui aveva ancora le autorizzazioni da vicedirettore fosse perché andava a trovare la ragazza. Finché lo faceva nel suo tempo libero, nessuno doveva fare altro che guardare, ascoltare e sperare che arrivassero delle informazioni.

Maria si abbassò sul pavimento e si sedette a gambe incrociate appena oltre il vetro, le sue ginocchia quasi toccavano la superficie della cella. "Ti piacerebbe giocare?"

Mischa la guardò con la coda dell'occhio per un attimo. "Che tipo di gioco?"

"Si chiama Never Have I Ever". Ne hai mai sentito parlare?

La ragazza scosse la testa.

"È molto semplice. Alza tre dita, in questo modo". Maria sapeva che la ragazza non avrebbe parlato apertamente, ma sperava che nascondere qualche domanda in un gioco l'avrebbe convinta ad aprirsi di più. “Inizierò dicendo qualcosa che non ho mai fatto, ma che mi piacerebbe fare. Se tu hai già fatto quella cosa, abbassa un dito. Poi dì qualcosa che non hai mai fatto tu. Se tutte le tue dita sono abbassate, hai perso".

Mischa rimase a fissare il pavimento per alcuni secondi, abbastanza a lungo perché Maria potesse pensare che il suo stratagemma non fosse intelligente come aveva inizialmente pensato.

Poi la ragazza sollevò lentamente un braccio e sollevò tre dita.

"Bene. Comincio io. Vediamo… non sono mai stata alle Bahamas".

Le tre dita della ragazza rimasero alzate.

"Bene" disse Maria, "ora tocca a te".

"Non ho mai…" mormorò la ragazza. "Giocato a calcio".

Maria piegò lentamente un dito verso il basso. "Ma ti piacerebbe?"

Mischa annuì.

"Hai visto altri bambini giocarci? o alla TV?"

“In televisione. Sembrava…" Si interruppe per un momento, come se stesse cercando la parola giusta. "divertente".

Maria trattenne il sorriso. Quella era la più grande confessione che aveva ottenuto finora da Mischa. "Molto bene. Tocca a me. Non ho mai mangiato caramelle fino a star male".

La fronte della ragazza si corrugò. "Perché mai dovresti farlo?"

“Beh, tu non lo faresti, immagino. Ma a volte le persone tendono a esagerare".

Le tre dita di Mischa rimasero alzate. "Non ho mai avuto un'amica".

Maria si morse rapidamente il labbro per soffocare un forte sussulto che quasi le sfuggì". Non si aspettava quel candore e fu presa alla sprovvista, come da una morsa che la afferrasse all'improvviso.

"Mi dispiace", disse dolcemente abbassando il secondo dito. Forse dovremmo fermarci".

"Ma sto vincendo".

Un sorriso involontario si aprì sulle labbra di Maria. "Hai ragione. è vero. Ok. Non ho mai coltivato un giardino".

Le sue tre piccole dita rimasero sollevate e Maria trattenne il respiro nell'attesa di quello che la ragazza avrebbe potuto aggiungere.

"Non ho mai incontrato mia madre".

Maria lasciò che emettesse lentamente un sospiro. Era un'affermazione terribile, ma non così sorprendente. Immaginava che Mischa fosse probabilmente stata abbandonata, o orfana, o forse addirittura rapita dai cinesi o da Samara o da qualunque altro gruppo che potesse averla addestrata. Abbassò l'ultimo dito e si mise le mani in grembo.

"Hai vinto", disse. Il gioco si era completamente ritorto contro di lei. Oltre a voler giocare a calcio, l'unica cosa che Maria aveva appreso era che la vita della ragazza, come già aveva immaginato, era stata terribile. Se solo…

"Mischa", disse all'improvviso. “Non posso promettere che incontrerai mai tua madre Ma posso prometterti altre cose. Posso prometterti che non rimarrai qui per sempre". Parlava in fretta, come se avesse paura che le parole potessero smettere di scorrere se si fosse fermata. “Potrai giocare a calcio, avere amici e… potrai mangiare caramelle fino a star male, se lo desideri. Potrai fare tutte queste cose". Maria cercò di reprimere le lacrime, lei stessa sorpresa per le promesse che stava facendo e di cui si era già pentita. Ci poteva provare, certo, ma non avrebbe potuto garantire nulla. "Dovresti avere tutte quelle cose".

"Come faccio a crederti?" domandò la ragazza.

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