La pesante porta finalmente si aprì fragorosamente, ed entrarono marciando le guardie reali, trascinando Godfrey tra loro. Gli dettero una spinta e Godfrey fu catapultato all’interno della stanza mentre la porta veniva sbattuta alle sue spalle.
Gli altri si voltarono e lo fissarono. Godfrey era trasandato, mezzo svestito e non rasato, e puzzava di birra. Sorrise. Con insolenza. Come sempre.
“Salve, Padre,” disse Godfrey. “Mi sono perso tutto il divertimento?”
“Te ne starai in piedi con i tuoi fratelli e come loro aspetterai che io parli. Se non lo farai, Dio me ne salvi, ti incatenerò nelle prigioni insieme al resto dei prigionieri comuni, e non vedrai cibo, e ancor meno birra, per tre giorni interi.”
Godfrey rimase lì, sprezzante, guardando suo padre con aria truce. In quello sguardo MacGil notò un qualche profondo bacino di forza, una parte di se stesso, una scintilla di qualcosa che un giorno forse potrebbe rivelarsi utile per Godfrey. Sempre che fosse mai in grado di dominare la propria personalità.
Ribelle fino all’ultimo, Godfrey aspettò dieci minuti buoni e poi finalmente ubbidì e si avvicinò lentamente agli altri.
Mentre tutti stavano lì in piedi, MacGil passò in rassegna questi cinque figli: il bastardo, il diverso, l’ubriacone, la figlia e il più giovane. Era uno strano gruppo e riusciva a malapena a credere che fossero stati tutti originati da lui. Ed ora, nel giorno del matrimonio della sua primogenita, gli toccava anche il compito di scegliere un erede da quel mazzo. Com’era possibile?
Era un esercizio inutile: dopotutto era lui il reggente e avrebbe potuto governare ancora per trent’anni o più; qualsiasi erede avesse scelto oggi avrebbe potuto attendere anche decenni prima di salire al trono. L’intera tradizione lo irritava. Probabilmente era stata rilevante ai tempi di suo padre, ma non aveva senso ora.
Si schiarì la voce.
“Siamo qui riuniti oggi per la più attesa delle tradizioni. Come sapete, in questo giorno – il giorno del matrimonio della mia primogenita – ho il compito di nominare un successore. Un erede che governi questo regno. Se dovessi morire, nessuno sarà più adeguato di vostra madre per salire al governo. Ma le leggi del nostro regno dicono che solo un re può essere il legale successore. Per cui, devo scegliere.
MacGil trattenne il fiato, riflettendo. Un silenzio pesante aleggiava nell’aria, e poteva avvertire il peso dell’attesa. Li guardò negli occhi, e scorse in ciascuno una diversa espressione. L’illegittimo aveva l’aspetto rassegnato, sapendo che non sarebbe stato scelto. Gli occhi del diverso brillavano di ambizione, come se si aspettasse che la scelta ricadesse naturalmente su di lui. L’ubriacone guardava fuori dalla finestra, non nutriva il minimo interesse. La figlia ricambiava il suo sguardo con amore, sapendo di non avere parte in quella discussione, ma amando suo padre comunque. Lo stesso per il più giovane.
“Kendrick, ti ho sempre considerato un vero figlio. Ma le leggi del nostro regno mi vietano di passare lo scettro a nessun altro che non sia prole legittima.”
Kendrick si inchinò. “Padre, non mi aspettavo che mi scegliessi. Sono contento di quello che ho. Non lasciare che questa situazione ti turbi.”
MacGil si sentì afflitto dalla risposta, sentendo quanto genuino era il ragazzo che lui avrebbe voluto nominare come erede, più di tutti gli altri.
“Questo vi lascia in quattro. Reece, sei un bravo ragazzo, il migliore che abbia mai visto. Ma sei troppo giovane per far parte della scelta.”
“È quello che mi aspettavo, padre,” rispose Reece, con un lieve inchino.
“Godfrey, tu sei uno dei miei tre figli legittimi maschi, tuttavia preferisci sprecare il tuo tempo in birreria, con il sudiciume. Ti sono stati offerti ogni sorta di privilegi nella vita, e li hai sdegnati tutti. Se devo pensare a una delusione in questa vita, ebbene sei tu.”
Godfrey rispose con una smorfia, assumendo un atteggiamento di disagio.
“Bene, quindi immagino di aver finito qui e di potermene tornare in birreria, giusto, padre?”
Con un rapido ed irrispettoso inchino Godfrey si voltò e si incamminò verso l’uscita.
“Torna qui,” gridò MacGil. “ORA!”
Godfrey continuò ad avanzare, ignorandolo. Attraversò la stanza ed aprì la porta. Lì stavano due guardie.
MacGil fremette di rabbia quando le guardie lo guardarono con sguardo interrogativo.
Ma Godfrey non aspettò: si fece strada tra di loro, attraverso il salone aperto.
“Fermatelo!” gridò MacGil. “E tenetelo lontano dalla vista della Regina. Non voglio che sua madre venga ferita dalla sua vista nel giorno del matrimonio di sua figlia.”
“Sì, mio signore,” dissero chiudendo la porta prima di correre ad acciuffarlo.
MacGil stava seduto, respirando, rosso in volto, tentando di riprendere la calma. Per la millesima volta si chiese cosa aveva mai fatto per meritarsi un figlio del genere.
Guardò di nuovo i figli rimasti. Tutti e quattro erano lì in piedi, in attesa in quel silenzio fitto. MacGil fece un profondo respiro, nel tentativo di concentrarsi.
“Questo lascia solo due di voi, continuò. E tra questi due io ho scelto il successore.”
MacGil si rivolse a sua figlia.
“Gwendolyn, sarai tu.”
Ci fu un sussulto di sorpresa nella stanza, tutti i suoi figli sembravano scioccati, soprattutto Gwendolyn.
“Hai detto bene, padre?” chiese Gareth. “Hai detto Gwendolyn?”
“Padre, sono onorata,” disse Gwendolyn. “Ma non posso accettare. Sono una donna.”
“È vero, una donna non ha mai seduto sul trono dei MacGil. Ma ho deciso che è tempo di cambiare la tradizione. Gwendolyn, tu hai la mentalità e lo spirito migliori di ogni giovane donna che io abbia mai incontrato. Sei giovane, ma se Dio vuole non morirò presto, e quando sarà ora, sarai abbastanza saggia da governare. Il regno sarà tuo.”
“Ma padre!” gridò Gareth, rosso in volto. “Io sono il primogenito maschio tra i tuoi figli legittimi! Sempre, in tutta la storia dei MacGil, lo scettro è andato al primogenito maschio!”
“Sono io il Re,” rispose MacGil cupamente, “e detto io la tradizione.”
“Ma non è giusto!” insistette Gareth piagnucolando. “Devo essere io il re. Non mia sorella. Non una donna!”
“Tieni a freno la lingua, ragazzo!” urlò MacGil, scosso dalla rabbia. “Osi mettere in discussione il mio giudizio?”
“Valgo meno di una donna? È questo che pensi di me?”
“Ho preso la mia decisione,” disse MacGil. “Tu la rispetterai e la seguirai con obbedienza, come tutti gli altri sudditi del mio regno. Ora potete andarvene.”
I figli fecero un veloce inchino con la testa ed uscirono velocemente dalla stanza.
Ma Gareth si fermò alla porta, incapace di portarsi fuori.
Si voltò e si trovò solo, faccia a faccia con suo padre.
MacGil poteva riconoscere la delusione sul suo volto. Appariva chiaro che si era aspettato di essere nominato erede quel giorno. Ancora di più, l’aveva voluto. Disperatamente. Il che, tutto sommato, non sorprendeva MacGil, e tra l’altro era anche il motivo per cui non aveva nominato lui.
“Perché mi odi, padre?,” chiese.
“Non ti odio. Semplicemente non ti reputo adatto a governare il mio regno.”
“E per quale ragione?” insistette Gareth.
“Perché è esattamente ciò di cui vai in cerca.”
Il volto di Gareth assunse una tonalità cremisi scuro. Era evidente che MacGil aveva scorto la sua natura più vera. MacGil lo guardava negli occhi, vedendoli bruciare di un odio per lui che non avrebbe mai creduto possibile.
Senza una parola di più Gareth uscì di scatto dalla stanza, sbattendo la porta dietro di sé.
Nell’eco riverberante, MacGil sussultò. Ripensò allo sguardo di suo figlio e percepì un odio così profondo, più profondo addirittura di quello dei suoi nemici. In quel momento pensò ad Argon, alla sua allusione ad un pericolo vicino.