Guido Pagliarino - Il Metro Dell'Amore Tossico – Romanzo стр 3.

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Un mesetto dopo era arrivata da Roma la mia promozione a vice brigadiere, per diretto intervento del Marradi come sarebbe corsa voce nell'Ufficio Segreteria, Personale e Benessere della Questura. Va da sé ch'ero stato profondamente grato a quel ministro, rivelatosi capace di riconoscenza a differenza di tanti altri politici; ma non era stato ancor tutto: alcuni giorni dopo avevo ricevuto una lettera da un’importante casa editrice che m’invitava a spedire in lettura le mie poesie per eventuale pubblicazione. Quasi non credendo a tal improbabilissimo fatto – avevo persino pensato allo scherzo di qualcuno –, avevo comunque eseguito; e dopo nemmeno un paio di settimane m’era giunto il contratto di pubblicazione. Ero esploso di gioia. Ne avevo parlato entusiasta in ufficio col D’Aiazzo; e a questo punto avevo saputo dal commissario che il notorio proprietario di quell’editrice era il Marradi. La mia riconoscenza verso il ministro era salita al settimo cielo.

Tuttavia, Aristide Maria Barani non aveva sbagliato giudizio su quell’uomo: un decennio dopo il Marradi s'era realmente rivelato un "ladro farabutto" come il suo mancato assassino gli aveva urlato all’aeroporto: Nel 1967 era finito in uno scandalo politico clamoroso, scoperto dalla Magistratura, secondo i quotidiani politici d’opposizione grazie a manovre sotterranee di ambienti economici ch’egli aveva danneggiati. L’opposizione aveva pur ventilato che avesse potuto mestare più volte anche in precedenza, essendo stato un segretario di Stato di lungo corso che aveva partecipato, a capo dei più svariati dicasteri, a quasi tutti i Governi della Repubblica, da quelli di centro degli anni '50, al gabinetto di centrodestra del 1960 sostenuto dall’esterno dai neofascisti, ad alcuni di centro successivi e, a far capo dal 1963, a quelli di centrosinistra. Certo è ch'egli era divenuto sempre più potente nel corso degli anni. Quanto meno per le ultime malefatte, era stato messo in stato d'accusa dal Parlamento riunito in seduta comune, in base all'articolo 96 della Costituzione Italiana relativo ai reati commessi da membri del Governo: lui solo, anche se l'opposizione aveva manifestato il sospetto che i colpevoli fossero stati molti e "tutti di area governativa". Prima che Camera e Senato avessero concesso l'autorizzazione a procedere alla Magistratura, il Marradi aveva cercato di fuggire all’estero ma, nel tentativo, era morto in un incidente aereo, e questo aveva alimentato il grave sospetto che fosse stato assassinato da complici perché tacesse per sempre.

Nel 1968 l'Italia dell'egemonia democristiana e poi di quella democristiano-socialista aveva cominciato a venir gravemente contestata, erano iniziati scioperi a catena ed era sorto il cosiddetto Movimento Studentesco: per tutti i contestatori i governi di centrosinistra erano da considerarsi nient’altro che servi dei padroni; quanto ai partiti di centrodestra, liberali compresi, tutti semplicemente fascisti. La contestazione avrebbe innescato un formidabile cambiamento nei costumi della popolazione, che sino ad allora erano rimasti in sostanza quelli dei decenni precedenti basati sui valori forti della moralità cristiana persino, almeno di fondo, per gli atei dichiarati.

Era in tale cornice che si preparava l’avventura che stavo per affrontare affiancato dall'amico Vittorio, durante la quale sarebbe spuntato, fra altri, anche il nome del defunto ministro Nuto Marradi.

Capitolo IV

Il D'Aiazzo era uomo cinquantenne robusto ma non alto, attorno al metro e sessantacinque. Inalberava una capigliatura bruna e riccia ancor folta ma che, nel 1969, iniziava a cedere alla calvizie sul vertice della testa, configurandovi un principio di chierica. Forse per bilanciare, da qualche tempo s’era lasciato crescere la barba. Era un eroe della resistenza antinazista il mio amico Vittorio: nel 1943, giovanissimo vice commissario, era stato uno dei combattenti durante la prima insurrezione antitedesca d'Europa, le cosiddette Quattro giornate di Napoli

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Quella sera a cena a casa sua, un appartamento in via Cernaia di fronte alla caserma dei Carabinieri omonima e non lontano dalla Questura di corso Vinzaglio, ci aveva servito e, come ormai d'abitudine, tra una portata e l'altra s’era seduta con noi a tavola una bruna ventinovenne, Carmen, formosetta simpatica e belloccia anche se illetterata e di non ampia mente, che sapevo esercitare per l'amico, oltre alle mansioni di governante, più intime funzioni. Nell'ormai lontano 1959, in occasione del primo invito a cena di Vittorio dopo il nostro trasferimento da Genova a Torino, lui me l'aveva presentata nella sola prima veste e lei, per quella volta, non s'era seduta con noi; ma dall'atteggiamento confidenziale che comunque mostrava, avevo sospettato. "La guagliona è della mia Napoli", s'era confidato già quella volta l'amico, anche se con un certo qual imbarazzo, mentre Carmen era in cucina a preparare il caffè: "È un'orfana senza ’na lira che m’hanno mandato papà e mammà come domestica: forse già te l’avevo detto quand’era arrivata" – avevo assentito –: "Francamente, ero stanco di pizzerie; e anche di essere... solo. Lei è giovanissima... sì, circa com’era mia moglie. Io ho già quarant’anni. Eppure, sai com'è, è finita così, che dopo un po'... siamo ormai... beh, hai capito. Il guaio è… che è ancora minorenne

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"Lo spero", avevo fatto eco meccanicamente, senz’accorgermi d'aver alimentato i suoi dubbi, sui quali si sarebbe arrovellato per anni. Me li avrebbe infine manifestati, in occasione d'un penoso avvenimento di cui dirò più avanti. Avevo soggiunto: "Certo, per voi cattolici è una vita piena di problemi, per me ce ne sono già così tanti altri nella vita che, almeno quelli religiosi, li ho sempre tralasciati."

"Non sei credente proprio per nulla?" m'aveva interrogato facendosi più serio.

"Mah, una volta ero del tutto ateo. Adesso… non lo so", avevo risposto esitante: "A volte... ma in definitiva, credo a ciò che vedo; e alla poesia."

"…e chi te la manda la poesia?" m'aveva incalzato, "la musa... già come si chiamava? Ah, sì, Calliope."

"No, Erato, dato che scrivo poesia lirica: Calliope era musa dell'epica."

"...e va bbuo', la musa in genere, non sottilizziamo, guaglio', No, era solo per dirti che la poesia è come l'amicizia; quella vera, dico: viene da Dio. Anzi, è uno dei segni dell'amicizia divina."

Non s'era più parlato per anni di quel rapporto Dio-poesia fino all'ultimo invito quando, a metà cena, Vittorio m’aveva detto: "Lo sai? Il premio letterario ti viene dal Cielo; come la tua poesia. Ricordi che ti dissi tanti anni fa? È Dio la vera e sola Musa."

"Anche per quelli come me?"

"Si capisce! Se son puri di cuore, però; e dimmi, tu lo sai perché i versi non dànno soldi?"

"So che ne direbbero i soldati di monsieur de La Palice

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"Uh, e chista 'ccà ha da esse 'na risposta?! No, non li dànno perché son cosa dello Spirito Santo; e pure ti dico che la poesia bella viene ai poeti che hanno lo Spirito: tu sarai anche un repubblicano storico, un non credente, ma sei idealista."

Ebbene, ero rimasto per un momento interdetto: dalla vendita dei venti sonetti a quel potente sei mesi prima, infatti, non avevo scritto più nemmeno un verso.

...ma no, avevo concluso in me stesso quella volta, puro caso!

Capitolo V

Buon per me che, a differenza dell'amico, fossi rimasto magro e agile come un tempo e mi sentissi in corpo la stessa forza di quand'ero stato ragazzino, altrimenti quel pomeriggio non me la sarei cavata.

Mancavano solo più due giorni alla mia partenza per New York. Verso le 15 ero uscito per recarmi alla Gazzetta del Popolo per stendervi un articolo per la terza pagina. In quei tempi senza internet, mentre per le riviste si poteva usare la posta, per i quotidiani, causa i ben più rapidi tempi di pubblicazione, bisognava recarsi fisicamente in sede; solo i corrispondenti esteri avevano il privilegio di dettare l'articolo telefonicamente e, qualche volta, pure i cronisti se la notizia era urgente; io e gli altri pubblicisti dovevamo consegnare fisicamente il pezzo scritto a casa, oppure stenderlo direttamente in sede; abitualmente io scrivevo in redazione. Avevo precedentemente collaborato, sempre come esterno pagato a singolo pezzo, a uno dei più importanti fogli italiani, ligure ma con un'edizione torinese, di proprietà del finanziere Angelo Tartaglia Fioretti, capo d'un colossale gruppo economico; ma dopo che, contando sulla mia posizione d'indipendente pubblicista, senza avvisarne alcuno avevo preso a collaborare anche con l'altro giornale, quotidiano avversario delle concentrazioni economiche e favorevole a un’economia cristiano sociale, il foglio del Tartaglia Fioretti non aveva più stampato i miei scritti. Al mio perché mai? la risposta era stata esuberanza di costi. Non m'avevano neppur detto: Ti chiediamo di scegliere. M'avevano semplicemente respinto, come s'io fossi stato un loro cavallo improvvisamente bizzoso che, senza bisogno di scuse, non si monta più. Me n'ero indispettito, tanto più riflettendo ch'era stato proprio il Tartaglia Fioretti a comprarmi, un paio di mesi prima, quelle venti poesie da spacciar per sue con l'amante. Avevo finalmente capito che, anche in quell'occasione, ero stato trattato come una cosa che si può acquistare e buttare quando si vuole.

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