Delio Zinoni - Lia стр 22.

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Volsero la prora verso terra, mentre dense nubi si accumulavano all’orizzonte. Una calma piatta e minacciosa si stese sulle onde. Le vele sbatacchiavano flosce. Izmal afferrò i remi, ma Ashva rimase immobile a prua, fissando l’acqua, come se attendesse qualcosa.

Ed ecco che il pesce dorato affiorò dalle acque. “Ebbene vecchio,” disse, “hai appreso finalmente la lezione dell’acqua?”

“Ho seguito il Grande Padre Er in tutti i suoi meandri, ho osservato le vie del fiume e degli uomini, mi sono sforzato di imitare l’acqua nella sua umiltà. Ma ancora sento di non avere appreso la sua lezione. Aiutami, pesce.”

E il pesce disse: “Sei vecchio e stanco. Non vedi dunque che ogni fiume trova la sua pace nell’Oceano?”

E in quel momento un’onda altissima, giungendo dal largo, afferrò la barca e la fece girare tre volte su se stessa, fin quasi a rovesciarla. Izmal si afferrò al timone con tutte le sue forze, ma Ashva non fece alcun tentativo per salvarsi; cadde fra le onde, e il suo mantello quasi candido impregnandosi di acqua lo trascinò a fondo, dietro al bagliore dorato del pesce.

– Cosa significa la storia di Ashva? – chiesi a Lucibello. Eravamo riuniti nella nostra soffitta, in tre per l’ultima volta.

– Le storie non significano. Accadono. E vengono raccontate.

– Ma l’eremita ha appreso la lezione dell’acqua, alla fine? – chiese Jues.

– Forse sì – disse Lucibello. – Morendo.

– A che serve una lezione appresa in punto di morte?

– A morire.

Jues si diede da fare attorno al fuoco, per nascondere la sua esasperazione.

– Lo scopo dell’Immacolata Dottrina è di imparare a morire, dunque? – chiesi io.

Lucibello scosse la testa. – L’Immacolata Dottrina non ha uno scopo.

E dopo un momento aggiunse: – Del resto, ho ascoltato altre storie, dalla bocca del Venerabile, che dicono cose completamente diverse.

Lo guardai, e compresi che il nuovo Lucibello non era poi così diverso dal vecchio.

(18) LA CISTERNA


La partenza di Lucibello mi lasciò in preda ad un’inquieta tristezza. La tristezza era dovuta alla perdita dell’amico, l’inquietudine alla mia incapacità di imitarlo.

Poiché, vedete, tutti i miei sogni: Lia e i carri dei teatranti, Lia e il palcoscenico illuminato, Lia e la poesia, Lia... Tutto questo, dovetti ammetterlo, era qualcosa che recitavo solo dentro la mia testa. Quando avevo provato a recitare nella realtà, avevo miseramente fallito. Quanto a scrivere, ero riuscito solo a scopiazzare. E il coraggio di andarmene da Morraine non riuscivo a farmelo venire. Forse, dopo tutto, sarei diventato un altro falegname nel Cortile del Nano.

Dopo il Mese-del-Passaggio giunse anche il Mese-delle-Farfalle. Il quarto giorno trovai una scusa per abbandonare la bottega di mio padre e raggiunsi la strada che portava alle montagne. Esattamente cinque anni prima ero stato investito dal carro di Lelius, e avevo visto Lia.

Mi fermai sul bordo della strada polverosa. Non c’erano Jues e Lucibello ad aspettarmi, nel casolare abbandonato. Uno era partito, l’altro lavorava. L’infanzia era finita, e nient’altro sembrava essere iniziato.

Sentii il rumore di un carro e il cuore mi balzò in gola. Ma era solo un contadino con la sua famiglia, di ritorno dai campi. Mi guardò con curiosità.

Dopo un po’, tornai a casa.

A casa trovai un messaggio. L’aveva consegnato qualcuno a mia sorella, che me lo passò in gran segreto.

Questa volta non era di Jues. Era vergato in uno stampatello ornato, e diceva:

“Sui gradini della fontana, alla stessa ora. Domani.” Non c’era firma.

Dalle finestre aperte filtrava un mormorio di voci, che si mescolava con quello della fontana. Ero arrivato in anticipo, e feci due volte il giro del porticato. Poi attraversai il cortile di sbieco, arrestandomi un momento accanto alla fontana ottagonale. Questa volta era ancora giorno, e distinsi le figure scolpite sulle lastre di pietra: le allegorie delle otto sfere celesti.

Provavo una certa riluttanza a sedermi sui gradini, così raggiunsi l’angolo opposto. Rari passanti attraversavano il cortile. Non era la Festa delle Maschere, e quella era una zona molto tranquilla di Morraine.

Quando mi voltai, vidi che una figura si era seduta sui gradini. Era avvolta in un mantello, il cappuccio che le copriva il volto. Dalla corporatura esile, doveva essere una ragazza.

Tornai indietro. Quando fui giunto a metà strada, la figura si alzò e si diresse verso un androne. La seguii. La riconobbi da come si muoveva.

Non cercai di raggiungerla. Sapevo che si sarebbe fermata a tempo debito.

La spirale del suo percorso questa volta si allargava. Cortile dopo cortile, i cerchi si avvicinavano alle mura. Qui gli spazi erano più grandi, le costruzioni meno ornate. Il Cortile dei Fabbri era pieno del frastuono delle incudini e del nitrito dei cavalli.

Poi la mia guida parve ripensarci, o forse era incerta sulla strada. Tornò verso il centro, vagò apparentemente a caso, prese infine un passaggio in salita, che aveva a destra un muro di grosse pietre, privo di aperture. Erano le mura della città.

Non si voltò mai, ma era come se la sua faccia lunare mi scrutasse sempre.

Il passaggio sbucava in un cortile irregolare e in pendenza. Il lato più lungo formato dalle mura, un altro da un’antica torre di guardia, la facciata interrotta da poche feritoie, il terzo dalla cisterna principale della città. Il quarto, molto stretto, dall’imboccatura di un androne che portava sulla chiave di volta due pesci intrecciati. Da sopra i tetti si scorgeva la torre circolare del Castello, la più alta di Morraine. Quasi metà del cortile era occupato da un orto cintato, probabilmente quello del guardiano della cisterna.

Occhi di Gatto si sedette sui gradini di una porticina che si apriva nello spessore delle mura.

Mi sedetti accanto a lei. Le ultime rondini stavano cedendo il cielo ai pipistrelli.

– Tieni a mente questa porta – disse.

Spalancai gli occhi. Il cappuccio le nascondeva la faccia. Allungai una mano e glielo scostai. Alla luce del sole calante, le pupille erano poco più di due fessure verticali, l’iride di un giallo intenso, screziato d’ambra.

– Perché?

– Domani sera potrai lasciare Morraine da qui.

Lo straniero ci guardò. Spalancò le braccia.

“Voi che avreste pensato?”

Che era pazza. O che scherzava. Lo pensai per il tempo di un battito di ciglia. Poi mi resi conto che era esattamente quello che avrei dovuto fare. Lasciare Morraine. Non dissi niente.

– La tua vita è in pericolo – disse Occhi di Gatto.

– Il Grifone...

– Sì. Sei stato interrogato dalla Guardia.

– Non ho detto nulla di te!

– Lo so. Ti ringrazio. Ma hai detto del Sole.

– Sì, ma...

– E hai riconosciuto l’Adepto.

– E tu come lo sai? – E subito dopo: – Il sole era l’adepto. Ed è anche...?

– Non posso dirtelo. – Che era una risposta ad entrambe le domande.

– Ma...

– Restando a Morraine sei in pericolo. È meglio se te ne vai.

Lasciare Morraine, la mia casa, mia madre, la mia famiglia! A quindici anni! Scossi la testa. Era un sogno. Adesso mi sarei svegliato.

– È quello che volevi, no?

– Cosa?

– Ti aspettarà un carro di teatranti, all’uscita del cunicolo.

Quale cunicolo? Mi presi la testa fra le mani. Mi sembrava di avere la febbre, le orecchie mi ronzavano.

Sentii la sua mano sulla spalla.

– Ascolta. Non abbiamo molto tempo. Ci sono forze all’opera che tu non conosci... e neppure io, del tutto. Forse potresti vivere a Morraine fino alla vecchiaia, o forse no. Ma se te ne vai sarai quasi certamente nessuno ti farà del male. E poi, è quello che volevi, no? – ripeté scrollandomi con forza la spalla.

– Ma tu...

– Io sono al sicuro – mi interruppe. – Se mai... i miei pericoli sono di altro genere.

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