Delio Zinoni - Lia стр 17.

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Ma la Festa delle Maschere non solo separa, unisce. Sì, perché una medesima maschera incontrata in più cortili allude ad una segreta affinità. Tanto più che una sola cosa, per inflessibile convenzione, le maschere non osano nascondere: il sesso di chi le indossa. Si dice perciò che la maggior parte dei fidanzamenti, a Morraine, avvengano durante la Festa delle Maschere. Come la maggior parte delle separazioni.

Jues lo lasciammo nel Cortile dell’Ombra, preso da uno spettacolo di mimi dai gesti lenti e misurati, il cui significato sfuggiva alla comprensione mia e di Lucibello, ma evidentemente non a quella del Pagliaccio Assorto.

Procedendo, io e l’ubu scambiammo occhiate con altre maschere, cercando qualche segno... Di cosa, neppure noi sapevamo. Alcuni, nella folla, erano privi di maschera: si trattava invariabilmente di stranieri, poiché è considerata una grave sconvenienza per un abitante di Morraine uscire a volto scoperto in questa occasione. Ma anche molti di coloro che indossavano qualche costume erano stranieri; facilmente riconoscibili, tuttavia, dalla grossolana banalità delle loro scelte, che non sfuggiva neppure a noi ragazzini, benché, temo, sia quasi impossibile da spiegare a chi non è nato e cresciuto nella mia città.

Giungemmo nel Cortile Dorato, che è uno dei più grandi e ornati della città. Qui si esibiva una compagnia venuta da fuori, come capita nei cortili ricchi, dove gli abitanti raccolgono somme a volte ingenti per ingaggiare attori famosi. Segretamente speravo di trovare... ma è inutile che ve lo dica.

Su un palcoscenico illuminato da lampade colorate, benché fosse ancora giorno, personaggi in abiti di seta, rasi e velluti di gran pregio, con ornamenti che sembravano, a chi li guardava dalla platea, di autentico oro e pietre preziose, eseguivano complicate evoluzioni, lanciando di tanto in tanto grida modulate, in cui con qualche fatica riconobbi delle parole, accompagnate da una musica stridente.

Dopo poco, entrò in scena un eremita, la lunga barba bianca, l’abito grigio cenere a brandelli, e misteriosamente, forse proprio per la sua incongruenza, o forse per l’abilità dell’attore, attirò su di sé tutta l’attenzione. L’eremita diede inizio ad un lungo sermone religioso, a cui gli altri personaggi reagirono in varie maniere, a seconda delle loro indoli: scherno, noia, ozioso interesse, fastidio; solo la Principessa, una eterea creatura quasi interamente ricoperta di gioielli, parve commossa e turbata.

Con mia grande sorpresa, Lucibello decise di fermarsi. Per conto mio, ero in preda ad una confusa irrequietezza. Mi allontanai silenziosamente, e voltandomi vidi l’ubu proteso con il lungo becco giallo verso l’eremita, la nera figura che sovrastava di una testa gli altri spettatori.

Trovai, in successione: saltimbanchi che costruivano piramidi umane; un giullare che narrava un cantare cavalleresco aiutandosi con pannelli dipinti e percussioni di vario genere; un cortile semivuoto, mentre gli artisti si riposavano fra un numero e l’altro; dei trapezisti su una corda tesa fra i tetti; nella Piazza dei Miracoli (in cui non avevo più messo piede dall’estate), un corsa di cavalli montati da cavallerizze scarsamente vestite, che avevano come mete le due fontane; una pantomima di orsi ammaestrati. E altri. Le maschere che incontrai erano troppo varie per essere descritte: ci vorrebbe tutta la sera. Notai comunque che la falena lunare suscitava un certo interesse, soprattutto fra maschere ugualmente notturne, che erano poi quelle da cui lei stessa era attratta.

Giunsi infine nel Cortile della Luna Piena.

La sera era già calata su un cielo screziato di viola e di rosso, mentre gli adulti, con le maschere più ricche, avevano cominciato ad uscire.

Lo spettacolo non era ancora iniziato, forse in attesa del buio completo. Su un lato del cortile si alzava un semplice telone bianco, che nascondeva quasi interamente le facciate delle case.

Mi fermai incuriosito, notando la presenza di molte maschere notturne, come del resto si addiceva al luogo.

Poi il telone si illuminò. L’ombra di un drago alato si stagliò su di esso. Vidi che la luce giungeva da dietro il telone. Dalla coda del drago nacque un fiore, da cui crebbe un muso di tigre, poi un volto di fanciulla, poi...

Mi addentrai fra il pubblico. Nel frattempo era iniziata una musica lenta, ma con esplosioni improvvise di cembali, piatti e campane. Terminata la virtuosistica introduzione, destinata ad attirare gli spettatori, iniziò la rappresentazione vera e propria. Quale fosse esattamente la storia, non saprei dire: c’erano solo la musica e le ombre, e forse le ombre erano solo un commento alla musica. O meglio: era un teatro che aspirava a diventare pura immagine, privandosi delle voci e dei corpi. Riconobbi comunque gli indizi di una favola mitologica, in cui un giovane eroe cerca di conquistare l’amore della sacerdotessa di una gelida divinità lunare.

Ma seppi, fin dal primo momento, che era quanto andavo cercando, nella mi identità di Falena Lunare.

Ci fu un’altro evento, in verità, che mi impedì di seguire con attenzione la storia. Fra la folla, scorsi una maschera che sembrava guardarmi: si trovava esattamente di fronte a me, e dunque doveva voltare le spalle alla scena; era metà bianca e metà nera, gli occhi due buchi scuri e insondabili, la bocca leggermente aperta.

Mi pareva di averla già vista, ma non riuscivo a ricordare dove.

(14) LA SIRENA


Avanzando con cautela per non disturbare gli spettatori, e soprattutto per non rovinare le ali della falena, mi avvicinai.

Era una maschera senza dubbio femminile. Come lo sapessi, sarebbe troppo lungo da spiegare: basti dire che vi sono segni indubitabili e certissimi, per un abitante di Morraine.

Ma prima che potessi raggiungerla, essa si ritrasse con sorprendente rapidità, considerando che doveva camminare all’indietro.

Fu allora, credo, che intuii dove avevo già visto quella maschera. Ma non ebbi il tempo di pensarci. Lo spettacolo, senza che me ne fossi accorto, era terminato, e gli spettatori stavano lasciando il cortile. Intravidi l’ovale bianco e nero dirigersi verso un corridoio, mi lanciai all’inseguimento, creando qualche trambusto fra le maschere che, a quell’ora e in quel cortile si muovevano con languida flemma. Quando la ritrovai, non fu una sorpresa scoprire che aveva il corpo di una sirena. E che la maschera, in realtà, le copriva la nuca. Gli occhi, naturalmente, erano chiusi.

Era la stessa figura che avevo vista dipinta sul carro di Lelius, o almeno le assomigliava molto.

Ora che mi trovavo a pochi passi da lei, non sapevo più cosa fare. La seguii per tutto il corridoio, e giunta alla fine, lei si voltò. Per la prima volta vidi la faccia della maschera. Se quella sulla nuca aveva gli occhi chiusi, questa mi guardava con due grandi pupille che sembravano brillare di luce propria, come quelle di un gatto. La falena fece ondeggiare le sue antenne, e lei sollevò il viso di sirena.

Disse: – Perché mi segui, falena?

– Tu mi guardavi con la tua faccia lunare.

Come aveva potuto riconoscere immediatamente la falena, e perché io avevo chiamato lunare la sua maschera posteriore?

Questi sono i misteri della Festa delle Maschere di Morraine.

Lei rise e si voltò, tornando a mostrarmi il volto dagli occhi chiusi. Ricominciò a camminare, ed io mi affiancai.

Passeggiammo in silenzio fino ad un cortile in cui ballerini dai costumi floreali eseguivano complicate coreografie. Lo attraversammo senza soffermarci più di qualche momento. Sbucammo quindi in un cortile quasi deserto: gli attori già se n’erano andati, con i loro arnesi, e restava solo un palco disadorno, qualche panca; sparsi a terra, frammenti caduti dai costumi e carte che avevano contenuto dolciumi. Al centro del cortile gorgogliava una fontana ottagonale. Ci sedemmo sui gradini. Solo qualche finestra gettava nel cortile un chiarore giallastro. Nell’ombra dei portici si aggiravano ombre furtive. Ci guardammo.

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