Ammiravo la fede esistenziale del mio amico, che ben poco aveva a che fare con la religione, se con tale parola sintenda convenzionalmente la sudditanza e il servizio, colmo dobblighi liturgici, a un Dio potentissimo e pretenzioso, immune dalle sofferenze umane: era una fede che sesprimeva concretamente nel fare il bene agli altri, sullesempio del martoriato suo Maestro evangelico che, secondo Vittorio, aveva espresso nel mondo lamoroso sentire dello stesso Dio. Ovviamente, maveva detto una volta, quando una persona percorre, per quanto può, la via dellamore verso il prossimo, è impossibile che questa non continui anche dopo la morte, nellEterno Amore. Purtroppo, diversamente dallamico io non ero e non sono credente; dico purtroppo perché, non essendo più giovane, penso spesso, più che nel passato, alla morte con la sua putrefazione e, se solo il niente cè dopo lultimo respiro, allinutilità tragica della vita. Tuttavia era stato proprio tal pessimistico sentire a condurmi, sin da giovanetto, a quello stesso desiderio di giustizia che animava il mio amico, anche se per me si trattava duna giustizia che poteva essere solo terrena; e convinto comero che nella tragedia cosmica in cui avevo parte, fosse almeno indispensabile la piena solidarietà fra gli umani secondo letica, per me intramontabile, che ha in onore ogni persona, provavo sdegno altissimo verso coloro che accorciavano coscienti il bene della vita altrui, di già tanto breve, e verso i violenti in genere che tormentavano i pochi anni concessi sulla terra agli umani; e mi trovavo del tutto daccordo con Vittorio quando mi diceva che, sin dagli anni 60 del XX secolo, il vivere civile sera vie più abbrutito nellaffievolimento e infine nella perdita, in molti, dei tradizionali ideali filosofico-sociali o religiosi, onde la vita di quelle stesse persone sera resa puro esercizio del proprio egoismo, secondo quella che il mio amico chiamava la regola del faccio quanto mi pare se mi sembra conveniente.
Vittorio aveva fatto rapida carriera fin ai primi anni '70, promosso vice questore in età ancor giovane, poi più nulla, ingiustamente; solo nel giorno del collocamento a riposo era asceso automaticamente, come previsto dai regolamenti, al superiore livello, e alla pensione, di questore.
Il mio amico non aveva né famiglia né prossimi parenti: vedovo lui da gran tempo, senza figli, e scapolo io, parimenti solitario, ci sentivamo come fratelli.
Io sono Ranieri Velli detto Ran, giornalista e scrittore e, negli anni 50 e 60 dello scorso secolo, collaboratore, col grado di vice brigadiere, dellallora commissario Vittorio DAiazzo nel Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza.
Ero il più giovane dei due, veleggiavo soltanto, si fa per dire, verso i sessantotto, compleanno il successivo 1° dagosto 2001. Come Vittorio già godevo di pensione, pur non avendo smesso lattività dopinionista sulla stampa quotidiana: nel più lontano passato, quando ancora non cerano le facoltà di Scienze delle Comunicazioni e pure un non laureato, dopo il debito praticantato, poteva accedere alla carriera di giornalista, avevo lavorato alla gloriosa Gazzetta del Popolo, quotidiano torinese che, fra sospensioni e riprese nel suo ultimo decennio di vita, aveva cessato del tutto le pubblicazioni il 31 dicembre 1983; quindi ero passato ad altro foglio, La Gazzetta Libera, fondato lanno successivo, niente a che fare con lantecedente quotidiano omofono, anche se creato anchesso come contraltare torinese dellimmarcescibile La Stampa che, in sostanza, significava FIAT: grazie alle sovvenzioni dun gruppo economico che ne aveva interesse, la novella Gazzetta, sebbene non fosse mai arrivata alla buona tiratura della precedente, era giunta viva al XXI secolo.
Se Vittorio era il mio unico amico, egli godeva invece di più di un'amicizia, pur se tutte meno profonde. Anche Evaristo Sordi poteva dirsi amico di Vittorio pur non avendolo frequentato nella vita privata. Anni prima era stato suo aiutante nella Sezione Omicidi della Squadra Mobile dopo che io, suo predecessore, e scrittore part time, avevo presentato le dimissioni per dedicarmi interamente alla scrittura. Evaristo era giunto al massimo della carriera per un non laureato, alla funzione d'ispettore superiore sUPS vale a dire di sostituto Ufficiale di Pubblica Sicurezza, detto comunemente sostituto commissario ricoprendone le funzioni. Di non molto più giovane di me, non era lontano dalla pensione. L'uomo portava importanti baffi da tempo grigi e aveva ancora, nonostante gli anni, una gran quantità di capelli, parimenti sale e pepe. Era figura prospera, tanto quanto lo era quella del mio amico Vittorio il quale tuttavia, a differenza dEvaristo, non era uomo delevata statura. Ero io il più alto dei tre e di molto, quasi un metro e novanta, e inoltre magrissimo da sempre anche se, disgraziatamente, negli ultimi anni mero un poco ingobbito, a causa della mia pessima abitudine, comune alle persone torreggianti, di chinarmi verso i molti interlocutori di statura minore, cominciando dallo stesso Vittorio.
Vittorio aveva saputo del primo crimine da un telegiornale della sera e, la mattina seguente, ne aveva letto con calma sul nostro quotidiano, in un articolo della capo redattrice di nera Carla Garibaldi, mia collega nubile sulla quarantina, una donna sul metro e settantacinque che, a causa deccessivo body building, svolto quotidianamente come maveva detto, aveva braccia e polpacci, e probabilmente cosce, un po troppo muscolosi per i miei gusti duomo della vecchia guardia. Era inoltre obiettivamente imbruttita da prognatismo mandibolare e da un naso troppo piccolo per la conformazione del suo viso notevolmente largo. Era peraltro persona di grande cultura e dal carattere franco e schivo, con la quale mi trovavo bene, a differenza che con certi spocchiosi del nostro giornale.
Cera stato mio tramite, come già per casi passati, uno scambio di notizie fra Vittorio e Carla e viceversa, con vantaggio di lei, tutto sommato, perché lamico godeva, di solito, dinformazioni di prima mano in quanto sovente visitava in Questura il Sordi. Questi aveva già avuto, in casi precedenti, suggerimenti decisivi dal pensionato questore, per cui non era solo per deferente simpatia che soleva accoglierlo nel suo ufficio e, a volte, sui luoghi stessi dei delitti e ascoltarne i pareri. Anche nel caso del Mostro dell'Orecchio, ben volentieri, sera tenuto Vittorio vicino.
L'amico, a volte, passava pure a trovare un altro suo ex dipendente, il vice questore Giandomenico Pumpo il quale, dopo un periodo da commissario capo alla direzione duno speciale reparto che soccupava di gruppi magici, esoterici, pseudo-religiosi e satanici, la SAS, Squadra Anti Sette, sedeva allo stesso posto chera stato del DAiazzo. Pur se meno suo amico del Sordi, anche il Pumpo si lasciava strappare talora dal vecchio poliziotto qualche notizia utile alle proprie parallele indagini.
Capitolo 2
Il secondo delitto era occorso cinque giorni dopo luccisione della Capuò Tron, ormai ottobre: vittima Giovanna Peritti vedova Verdani, pensionata sessantenne che viveva sola in un alloggio in corso Agnelli ereditato dal marito. Aveva una figlia, ma sposata e residente ad Asti. Proprio questa ne aveva scoperto il cadavere, poco dopo le 22 dello stesso giorno dellomicidio: ella usava telefonare ogni sera alla mamma, e quella volta non aveva avuto risposta, sebbene il telefono avesse trillato molte e molte volte dalle 19 e 30 in poi; e poco dopo le 21, la figlia, preoccupata assai ben sapendo che la madre mai usciva di casa col buio, era saltata in macchina ed era venuta a Torino. Giunta circa unora dopo dinanzi al palazzo della mamma e avendo sonato inutilmente al citofono, grazie alle chiavi di riserva che aveva con sé era entrata, era salita e aveva aperto lappartamento materno, chiuso col solo mezzo giro come avrebbe poi detto alla Polizia, e accesa la luce, aveva fatto la raccapricciante scoperta della genitrice a terra cadavere nellingresso, con la bocca spalancata in una smorfia di dolore, gli occhi sbarrati, sangue e materia cerebrale fuoriusciti da un orecchio e un largo ematoma sulla testa.