Луиджи Пиранделло - Il fu Mattia Pascal / Покойный Маттиа Паскаль. Книга для чтения на итальянском языке стр 4.

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Ricordo a San Rocchino, un giorno, ci fece ripetere alla collina dirimpetto non so più quante volte questa sua Eco:

In cuor di donna quanto dura amore?

 (Ore).

Ed ella non mi amò quantio lamai?

 (Mai).

Or chi sei tu che sì ti lagni meco?

 (Eco).

E ci dava a sciogliere tutti gli Enimmi in ottava rima di Giulio Cesare Croce, e quelli in sonetti del Moneti e gli altri, pure in sonetti, dun altro scioperatissimo che aveva avuto il coraggio di nascondersi sotto il nome di Caton lUticense. Li aveva trascritti con inchiostro tabaccoso in un vecchio cartolare dalle pagine ingiallite.

 Udite, udite questaltro dello Stigliani. Bello! Che sarà? Udite:

A un tempo stesso io mi son una, e due,
E fo due ciò chera una primamente.
Una mi adopra con le cinque sue
Contra infiniti che in capo ha la gente.

Tutta son bocca dalla cinta in sue,
E più mordo sdentata che con dente.
Ho due bellichi a contrapposti siti,
Gli occhi ho ne piedi, e spesso a gli occhi i diti.

Mi pare di vederlo ancora, nellatto di recitare, spirante delizia da tutto il volto, con gli occhi semichiusi, facendo con le dita il chiocciolino.

Mia madre era convinta che al bisogno nostro potesse bastare ciò che Pinzone cinsegnava; e credeva forsanche, nel sentirci recitare gli enimmi del Croce o dello Stigliani, che ne avessimo già di avanzo. Non così zia Scolastica, la quale non riuscendo ad appioppare a mia madre il suo prediletto Pomino sera messa a perseguitar Berto e me. Ma noi, forti della protezione della mamma, non le davamo retta, e lei si stizziva così fieramente che, se avesse potuto senza farsi vedere o sentire, ci avrebbe certo picchiato fino a levarci la pelle. Ricordo che una volta, scappando via al solito su le furie, simbatté in me per una delle stanze abbandonate; mafferrò per il mento, me lo strinse forte forte con le dita, dicendomi: Bellino! bellino! bellino! e accostandomi, man mano che diceva, sempre più il volto al volto, con gli occhi negli occhi, finché poi emise una specie di grugnito e mi lasciò, ruggendo tra i denti:

 Muso di cane!

Ce laveva specialmente con me, che pure attendevo agli strampalati insegnamenti di Pinzone senza confronto più di Berto. Ma doveva esser la mia faccia placida e stizzosa e quei grossi occhiali rotondi che mi avevano imposto per raddrizzarmi un occhio, il quale, non so perché, tendeva a guardare per conto suo, altrove.

Erano per me, quegli occhiali, un vero martirio. A un certo punto, li buttai via e lasciai libero locchio di guardare dove gli piacesse meglio. Tanto, se dritto, questocchio non mavrebbe fatto bello. Ero pieno di salute, e mi bastava.

A diciottanni minvase la faccia un barbone rossastro e ricciuto, a scàpito del naso piuttosto piccolo, che si trovò come sperduto tra esso e la fronte spaziosa e grave.

Forse, se fosse in facoltà delluomo la scelta dun naso adatto alla propria faccia, o se noi, vedendo un poveruomo oppresso da un naso troppo grosso per il suo viso smunto, potessimo dirgli: «Questo naso sta bene a me, e me lo piglio;» forse, dico, io avrei cambiato il mio volentieri, e così anche gli occhi e tante altre parti della mia persona. Ma sapendo bene che non si può, rassegnato alle mie fattezze, non me ne curavo più che tanto.

Berto, al contrario, bello di volto e di corpo (almeno paragonato con me), non sapeva staccarsi dallo specchio e si lisciava e si accarezzava e sprecava denari senza fine per le cravatte più nuove, per i profumi più squisiti e per la biancheria e il vestiario. Per fargli dispetto, un giorno, io presi dal suo guardaroba una marsina nuova fiammante, un panciotto elegantissimo di velluto nero, il gibus, e me ne andai a caccia così parato.

Batta Malagna, intanto, se ne veniva a piangere presso mia madre le malannate che lo costringevano a contrar debiti onerosissimi per provvedere alle nostre spese eccessive e ai molti lavori di riparazione di cui avevano continuamente bisogno le campagne.

 Abbiamo avuto unaltra bella bussata! diceva ogni volta, entrando.

La nebbia aveva distrutto sul nascere le olive, a Due Riviere; oppure la fillossera i vigneti dello Sperone. Bisognava piantare vitigni americani, resistenti al male. E dunque, altri debiti.

Poi il consiglio di vendere lo Sperone, per liberarsi dagli strozzini, che lo assediavano. E così prima fu venduto lo Sperone, poi Due Riviere, poi San Rocchino. Restavano le case e il podere della Stìa, col molino. Mia madre saspettava chegli un giorno venisse a dire chera seccata la sorgiva.

Noi fummo, è vero, scioperati, e spendevamo senza misura; ma è anche vero che un ladro più ladro di Batta Malagna non nascerà mai più su la faccia della terra. È il meno che io possa dirgli, in considerazione della parentela che fui costretto a contrarre con lui.

Egli ebbe larte di non farci mancare mai nulla, finché visse mia madre. Ma quellagiatezza, quella libertà fino al capriccio, di cui ci lasciava godere, serviva a nascondere labisso che poi, morta mia madre, ingojò me solo; giacché mio fratello ebbe la ventura di contrarre a tempo un matrimonio vantaggioso.

Il mio matrimonio, invece

 Bisognerà pure che ne parli, eh, don Eligio, del mio matrimonio?

Arrampicato là, su la sua scala da lampionajo, don Eligio Pellegrinotto mi risponde:

 E come no? Sicuro. Pulitamente

 Ma che pulitamente! Voi sapete bene che

Don Eligio ride, e tutta la chiesetta sconsacrata con lui. Poi mi consiglia:

 Sio fossi in voi, signor Pascal, vorrei prima leggermi qualche novella del Boccaccio o del Bandello. Per il tono, per il tono

Ce lha col tono, don Eligio. Auff! Io butto giù come vien viene. Coraggio, dunque; avanti!

IV

Fu così

Un giorno, a caccia, mi fermai, stranamente impressionato, innanzi a un pagliajo nano e panciuto, che aveva un pentolino in cima allo stollo.

 Ti conosco, gli dicevo, ti conosco

Poi, a un tratto, esclamai:

 To! Batta Malagna.

Presi un tridente, chera lì per terra, e glielo infissi nel pancione con tanta voluttà, che il pentolino in cima allo stollo per poco non cadde. Ed ecco Batta Malagna, quando, sudato e sbuffante, portava il cappello su le ventitré.

Scivolava tutto: gli scivolavano nel lungo faccione, di qua e di là, le sopracciglia e gli occhi; gli scivolava il naso su i baffi melensi e sul pizzo; gli scivolavano dallattaccatura del collo le spalle; gli scivolava il pancione languido, enorme, quasi fino a terra, perché, data limminenza di esso su le gambette tozze, il sarto, per vestirgli quelle gambette, era costretto a tagliargli quanto mai agiati i calzoni; cosicché, da lontano, pareva che indossasse invece, bassa bassa, una veste, e che la pancia gli arrivasse fino a terra.

Ora come, con una faccia e con un corpo così fatti, Malagna potesse esser tanto ladro, io non so. Anche i ladri mimmagino, debbono avere una certa impostatura, chegli mi pareva non avesse. Andava piano, con quella sua pancia pendente, sempre con le mani dietro la schiena, e tirava fuori con tanta fatica quella sua voce molle, miagolante! Mi piacerebbe sapere comegli li ragionasse con la sua propria coscienza i furti che di continuo perpetrava a nostro danno. Non avendone, come ho detto, alcun bisogno, una ragione a se stesso, una scusa, doveva pur darla. Forse, io dico, rubava per distrarsi in qualche modo, poveruomo.

Doveva essere infatti, entro di sé, tremendamente afflitto da una di quelle mogli che si fanno rispettare.

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