Various - La vita italiana nel Trecento стр 14.

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Che Cola di Rienzi fosse riuscito, ad onta di queste sue stravaganze, a suscitare un grande entusiasmo per sè, non solo in Roma, ma ancora in tutta Italia, è un fatto codesto che non può mettersi in alcun dubbio. Lo comprova la stessa testimonianza del Petrarca. In una epistola indirizzata al popolo romano, il Petrarca chiamava Cola di Rienzi nuovo Bruto, maggiore dell'antico e invitava i cittadini a onorarlo: Ma voi, cittadini, diceva il grande poeta, onorate codest'uomo, onoratelo quasi un messo del cielo, un raro dono di Dio, e ponete la vostra vita per la sua salvezza. Il popolo non avea bisogno di tale impulso per amare e onorare il suo tribuno. Ma non era lo slancio di un patriottismo nobile e disinteressato inspiratore di codesto sentimento popolare per Cola; era invece la generale miseria del tempo, la quale operava che ciascuno si volgesse a chi pareva promettere lenimento e salvezza. E questa sicurtà, da gran tempo perduta, Roma l'avea per opera del suo tribuno riacquistata: Allora, scrive il biografo contemporaneo di Cola, le selve si cominciaro a rallegrare, perchè in esse non si trovava ladrone; allora li bovi cominciaro ad arare, li pellegrini a far la cerca per la santuaria, li mercanti a spasseggiare, li procacci In questo tempo paura e tremore assalìo li tiranni; la buona gente, come liberata da servitude, si rallegrava. Ma quando la clemenza inconsulta del tribuno verso i tiranni fe' da costoro svanire la paura, allora la sicurezza decantata dal biografo scomparve, e con essa cadde il fascino che Cola avea esercitato sul popolo. Da quel momento la fine del tribuno fu segnata. Ora fu messa pure in evidenza l'inettezza assoluta di quest'uomo a far trionfare la rivoluzione da lui suscitata. Dalla più audace impudenza egli passa alla più volgare pusillanimità: e il candidato dello Spirito Santo, che dal suo evento avea dato l'inizio di una nuova êra liberatæ Reipubblicæ anno primo, alla prima levata di scudi de' suoi nemici, si ripara in Castel Sant'Angelo, per poter di là, col favore delle tenebre, fuggire da Roma come un malfattore. E non fosse mai più tornato in quella città per lui fatale! Avrebbe risparmiato al popolo romano un crimine codardo, a sè una fine raccapricciante.

E che rimase, si può ora domandare, di questa gran rivoluzione che Cola di Rienzi seppe suscitare nel nome di Roma? Il suo risultamento del tutto negativo ci dimostra che, se l'autore di essa fu troppo minore della colossale impresa, minore di essa fu anche il popolo romano, e con esso tutta la gente italiana d'allora. Un solo dei contemporanei la comprese, e la immortalò, sia con le sue opere latine, sia con quella celebre canzone, che per lungo tempo si era creduto fosse indirizzata a lui, e che, sebbene ad altro personaggio si riferisse, comparisce egualmente come il vaticinio di un grande evento, onde il Petrarca avea piena l'anima, l'Italia, cioè, fatta nazione. Per farlo nascere al suo tempo, il poeta, dopo di avere invano invocato la pace, predicò la guerra, la guerra contro i tiranni di Roma; e invocò Gesù buono e troppo mansueto, perchè sorgesse ad abbattere i suoi nemici, che, sotto lo scudo del suo nome, facevano cose obbrobriose. Ma non era scritto nei fati d'Italia che la patria nostra dovesse risorgere in quella lontana età. E profetica fu ancora la canzone Spirto gentil, per quella immagine del Cavalier che Italia tutta onora, il quale ha da sedere su 'l Monte Tarpeo, Pensoso più d'altrui che di sè stesso. È argomento tuttodì controverso a chi il poeta intendesse alludere con quella immagine, la quale, come attesta il Machiavelli, attrasse e inspirò l'anima entusiasta dell'infelice Stefano Porcari. Ma qualunque sia il personaggio a cui il poeta riferì l'immagin sua, egli è certo che l'Italia, dopo averla cercata invano per lunghi secoli, la trovò finalmente all'età nostra, in quel cavaliere, che, portata sul Campidoglio la spada d'Italia, pronunciò davanti al mondo civile le celebri parole: qui stiamo e qui resteremo; compendiate felicemente dal successor suo nell'attributo dato alla Roma libera d'intangibile.

I PRIMORDI DELLE SIGNORIE E DELLE COMPAGNIE DI VENTURA

DI

AUGUSTO FRANCHETTI

I

Se, passando da piazza della Signoria, alzate gli occhi a guardare le armi dipinte sotto il ballatoio di Palazzo Vecchio, ne vedrete una, che porta uno scudo azzurro col motto Libertas, ed era l'insegna del magistrato de' priori: la stessa parola si legge scritta sullo stemma di Bologna e d'altri comuni; e si trova ad ogni passo nei bandi delle autorità, nei discorsi degli oratori, nei versi dei poeti, durante i secoli XIII e XIV. Ma la libertà che amavano e bramavano gli uomini di quei tempi, e per la quale erano pronti a dare fino all'ultima goccia di sangue, era la libertà di regolare le cose del Comune opprimendo ferocemente le consorterie e le fazioni avversarie, e di tener soggette le terre vicine, anche taglieggiandone gli abitanti. Alle menti medievali, il diritto politico si rappresentava come un privilegio, e le attribuzioni dello Stato come franchigie; quel che chiamavasi Comune era quasi sempre il governo d'una fazione; le sue leggi e i suoi statuti, anche in materia civile e amministrativa, miravano a difesa o ad offesa partigiana; e le sue giustizie medesime apparivano vendette. Abbattuti i feudatari e costretti i più di questi a venire dentro le sue mura, il Comune s'era sostituito nelle loro ragioni, e le esercitava, con non minor vigore, a carico dei vassalli, sotto le due alte e mal definite potestà della Chiesa e dell'Impero; potestà intorno alle quali s'aggira tutta la storia dell'evo medio, e che combatterono tra loro le ultime grandi battaglie appunto fra il 1226 e il 1268, cioè fra il principio della seconda Lega lombarda e il supplizio di Corradino. Laonde rimase all'Italia una funesta eredità di odî, di divisioni e di rovine e le si apparecchiò, pel futuro, uno stato d'impotenza e di dipendenza politica, confortato soltanto dal sogno della duplice supremazia universale.

Non vanno accettate a chius'occhi le meravigliose descrizioni che ci lasciarono poeti e cronisti del beato vivere nelle prime età dei Comuni. Presto incominciarono le guerre coi vicini e anche le discordie

Tra quei che un muro ed una fossa serra.

E la parte che v'ebbe senza dubbio la diversità di schiatta non appare dai documenti raccolti sia stata così preponderante nè così universale come afferma qualche moderno storico; mentre, a buon conto, le stesse gare di fazioni nemiche, le stesse violenze pubbliche e private si ritrovano nei luoghi dove non penetrarono nè si stanziarono invasori germanici. Si può tenere per vera l'opinione del Balbo che la fusione delle razze era omai compiuta al tempo della pace di Costanza, nel 1183; e già di lunga mano si era andata operando in seno alle moltitudini. Avvalorata da varie cause accessorie, la esaltazione delle forze individuali congregatesi in molteplici compagnie, fu causa d'ogni bene e d'ogni male, di precoci fortune e di non meno precoci calamità, pei popoli della penisola che sorgevano rigogliosi a vita nuova in sul principiare del secolo XII.

II

Ogni città pertanto soleva avere molti nemici e di molte sorta: primi fra tutti, i fuorusciti che avevano avuto le case arse e disfatte, a furia di popolo e talvolta per sentenza del magistrato, e tutti i beni pubblicati, ossia confiscati; onde peregrinavano condannati essi stessi a morte o all'esilio, insieme colle donne e coi figliuoli (quando pure questi non fossero stati trattenuti come ostaggi): bensì costoro, senza perdersi d'animo, costituivano subito uno Stato fuori dello Stato; si raccoglievano a consulte, si eleggevano capi, stavano uniti ed armati, offrendo i loro servigi in cambio dell'ospitalità a quelli della loro parte, e spiando l'occasione di tornare in patria, per render la pariglia ai loro avversari: taluni pure stretti dal bisogno si mettevano agli stipendi di qualche signore italiano o straniero, facendosi così precursori delle compagnie di ventura. C'erano inoltre altri nemici del Comune, più coperti, ma non meno pericolosi: dentro, la moltitudine dei malcontenti, cioè degli esclusi dagli onori: e questi solevano essere, in Toscana, i nobili e i plebei, poichè coloro che in sul finire del secolo XIII si erano recati in mano lo Stato erano generalmente i popolani grassi; ma ai grandi poi vennero ascritte, per astio e per vendetta, molte famiglie d'origine cittadina, e gli stessi popolani grassi, divisi in consorterie e in nuove fazioni, si fecero guerra tra loro. Fuori poi, stavano le terre e le città soggette le quali erano tenute in freno più che altro dalla paura; e quanto più esteso era il dominio, tanto più eran temibili le ribellioni; nè si ristavano dal fomentarle i feudatari della campagna, che non tutti si erano condotti a vivere dentro le mura, ma parecchi serbando una mezza indipendenza eran venuti a patti col Comune, nè avevano scrupolo di violarli ove a loro tornasse conto. Non occorre accennare alle insidie e alle guerre degli emuli vicini o lontani, essendo sorte che tocca a tutti gli Stati. Bensì i Comuni, per la loro natura, vi andavano più esposti degli altri.

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