L'opera sua filosofica intera, tanto profonda nelle fondamenta, tanto solida nella struttura, tanto irradiata da intimi fulgori di sentimento e di fantasia, è veramente un poema sacro, in capo al quale si avrebbero a iscrivere le parole del suo autore ad Alessandro Manzoni: «Ciò ch'è divino e che luce nel seno del mistero è come il comune alimento pel quale il poeta e il filosofo vivono immortali.» Mi è impossibile, signori, esporvi il disegno di questo edificio che si chiama Sistema della Verità, e che Rosmini promise, sorridendo, di compiere in paradiso. Mi è altrettanto impossibile tralasciar d'indicarvene la pietra angolare. Malgrado la santità e il genio di Rosmini, malgrado le opere sue, la istituzione di un Ordine religioso, i servigi resi all'Italia, i suoi discepoli non avrebbero affrontato battaglie, umiliazioni e dolori: noi non ci saremmo raccolti in suo onore a Rovereto, nè io parlerei ora di lui per la terza volta se si trattasse della fama d'un uomo, dell'onore di una tomba e non della gloria di una verità. La pietra angolare del sistema filosofico di Rosmini è la dimostrazione che l'idea dell'Essere è il principio della intelligenza. L'idea dell'Essere, mediante la quale l'uomo può giudicare che le cose hanno la qualità di essere, ossia che sono, è il lume della ragione. È un lume implicito nel primo giudizio che l'uomo proferisce, quindi precede la prima sensazione di cui il soggetto ha coscienza, è anteriore alla intelligenza umana perchè la crea. L'Essere non è altro che la verità. La verità è dunque anteriore alla intelligenza umana perchè la crea. Appunto questo è il beneficio immenso che ci ha fatto Rosmini. Ha dato a tutti noi la visione razionale dell'Essere assoluto ossia la certezza razionale che vi è una verità infinita ed eterna, indipendente dall'uomo, origine della ragione umana; che le verità parziali, apprese dalla ragione umana nel lume del primo vero, non sono quindi proiezioni di lei, non peccano per un vizio radicale, insanabile, di relatività, ma sono certe in noi e fuori di noi. Questa è una grande forza che Rosmini ci ha dato contro lo scetticismo e le sue conseguenze. Il nostro dovere è di usarne, e urge, nell'ora presente, che noi ne usiamo perchè nell'ora presente la gente si burla dei filosofi, è vero, ma nello stesso tempo gli uomini e anche le donne fanno più che mai della filosofia per conto proprio. Ne fanno con pochissimo studio, con pochissimo sapere, e la maggior parte di queste filosofie private, nè solide, nè serie, riesce a base di scetticismo, il quale, nascosto o palese, si ripercote poi sulle energìe vitali e le abbassa. L'ora presente somiglia all'ora passata di quel sensismo contro il quale Rosmini insorse. La dottrina ch'eleva i sensi a soli maestri del vero ed esclude quindi l'assoluto, è alquanto scossa in teoria, ma il suo potere è tuttavia grande nel campo della politica dove si manifesta come opportunismo e regge la condotta di tutti i partiti con l'expedit e il non expedit; è grande nel campo del diritto penale, dove sostituisce il concetto di difesa al concetto di giustizia; è grande nel campo della scienza, dove nega il soprasensibile; è grande nel campo dell'arte, dove consacra i sensi a soli maestri della bellezza. Tutte queste manifestazioni di una dottrina di errore, noi, discepoli di Rosmini, siamo chiamati a combattere, ciascuno nel proprio campo e Rosmini non ci ha dato solamente un terreno fermo sul quale far testa, ci ha pure dato norme sicure per l'azione. Mettere in opera la verità: ecco la formola della morale rosminiana; dovunque e sempre corrispondere con l'azione alla verità: ecco la legge che noi dobbiamo proporci di seguire come uomini di scienza e come uomini di azione, come pensatori e come artisti. Operare la verità, per un artista, non è altro che conoscere con la mente la natura dell'arte e riconoscerla con l'opera. In questo concetto rosminiano, io, come artista, mi sono sentito libero dispositore della bellezza che appare ai sensi nella luce del sole e anche in certo modo negativo, nell'ombra; della bellezza che appare alla ragione nella luce del vero e del bene, e anche, in un certo modo negativo, nell'assenza di essi: della bellezza ch'è nella stessa anima mia come specchio della bellezza esterna, come idea, come fantasma, come amore. E se la visione delle cose belle conduce per via di ragionamento il discepolo di Rosmini a credere in un Essere vivente ch'è bellezza e dal quale ogni bellezza discende, il poeta perviene di slancio a tal fede nel palpito che l'oscuro tocco di questo Essere vivente gli suscita in cuore, come Shelley, rapito amante, cantò.
* * *Signori! Io chiudevo pochi mesi addietro un mio breve studio su Antonio Rosmini esprimendo il voto che per opera di qualche ricco munifico o di qualche gruppo di uomini devoti alle dottrine del Roveretano sorgesse in Italia una cattedra di filosofia rosminiana. Permettetemi di ripetere questo voto davanti a voi. Uscendo dalla cripta del tempio di Stresa dove dorme la spoglia mortale dell'uomo che tanto vide e tanto amò, che tanta gloria diede alla Chiesa ed ebbe da infelici ministri di lei tanto dolore, pensavo a profetiche parole sue piene di fede nel trionfo del suo sistema: «Conviene che io muoia e marcisca sotterra. Allora sarà il tempo.» E pensavo quanto è da invocare nello stato presente d'Italia che quest'ora suoni. A minor prezzo che non si sarebbe sperato quando in faccia al golfo poetico dove Stresa siede tendevan la gola da Laveno i cannoni austriaci, l'unità politica della nazione si ottenne. Ma l'unità intellettuale che Rosmini, severo e acceso, ammoniva dover precedere l'altra, è più che mai desiderio e sogno. Unità intellettuale perfetta neppure si spera, neppure è compatibile con le condizioni della civiltà presente; tuttavia i dissidii che più fiaccano la mole malferma del nostro Stato e più turbano le anime potrebbero felicemente comporsi secondo principii di libertà e di verità, se un largo consenso avvenisse nelle dottrine di quell'uomo grande. Lavoriamo a creare un tale consenso e possano, nel 1955, per il centenario della sua morte, i nipoti nostri ascendere alla tomba di Stresa, là dove più ride Italia, dire ginocchioni a Rosmini che finalmente la sua patria cara non è soltanto una, felice, forte di leggi e di armi, ma è anche una nel concetto del diritto e del dovere, nell'intelletto e nella pratica della libertà.
ALESSANDRO MANZONI
CONFERENZADIENRICO PANZACCHISignore e Signori!
I
Qualcuno di voi forse ricorda che l'anno passato, nella conferenza che ebbi l'onore di tenere in questo stesso luogo, rilevai, a proposito di Alessandro Manzoni, la opinione mia intorno al romanticismo, considerato nel periodo in cui aveva raggiunto il suo momento più operoso, tanto fra noi quanto in Europa.
Eravamo nel 1821, e Manzoni scriveva al Conte Cesare D'Azeglio: «Per me il romanticismo ha compiuto la sua vicenda, e ormai sarebbe un bene che non se ne parlasse più, e non mi dorrei se anche il nome andasse in dimenticanza.» E invero, ciò che egli poteva fare l'aveva già fatto: soppressione delle così dette unità aristoteliche nel dramma, bando alle mitologie gentilesche, bando alla troppo servile e pedissequa imitazione degli autori classici; predilezione ormai consacrata per argomenti d'indole nazionale e per quelli che attengono all'intimità dello spirito. Erano notevoli inoltre nella conquista del romanticismo certi atteggiamenti di forma, e una spiccata predilezione di tutto ciò che aveva un po' del vago e del fantastico. Ma, soggiungeva poi il Manzoni, io credo che oltre tutto ciò bisogni indagare un carattere più intimo e più profondo che è nel moto detto romanticismo, qualche cosa che sopravviverà a lui anche quando esso rimanga un nome vano nella storia letteraria e che gli permette fin d'ora di guardare l'avvenire come suo. Consiste questo in un più grande ravvicinamento dello spirito alla natura per mezzo dell'osservazione diretta, dello studio intenso, dell'ispirazione spontanea e geniale.