Altro esempio. Come ritornare in Italia, non potendo dire di aver pranzato da Bignon, o al caffè Riche? Bisogna dunque passare sotto le Forche caudine; andare al Riche, o da Bignon. Eppure, chiuso là in una di quelle scatole che chiamano sale, pigiato fra venti o trenta persone ad uno di quei deschetti che chiamano tavole, avrete pagato trenta lire, o giù di lì, una scarsa julienne, due piatti di carne, o di pesce, e una bottiglia di vino. Andate in quella vece al Diner parisien o al Diner Valois, e pagate cinque lire un pranzetto più compito di quello, quantunque meno ricco di principii e di frutte che non sia il pranzo a cinque lire d'una trattoria italiana. Andate da Tissot, o da un altro del Palais Royal, e lo stesso pranzo vi costa a mala pena due lire e cinquanta centesimi. In via della Borsa c'è un pulitissimo ristoratore coll'insegna Au Rosbif, che promette di farvi pranzare per una lira e quaranta. Io non ci sono andato, come non sono andato da quell'altro che ieri faceva annunziare i suoi pranzi a una lira e venticinque; ma il timore di essere avvelenato non c'entrava per nulla, bensì quello di non trovare cinquanta centimetri di spazio. Infatti, non crediate che si tratti in queste trattorie (parlo di quelle a cinque lire, e di quelle a due e cinquanta) di mangiare della roba avariata. Ve la danno misurata, ecco tutto; vi obbligano a sceglierne due o tre piatti in una carta che ne ha tre o quattro di entrées, due o tre di pesce, due o tre di arrosti, e che manca di certe primizie, di certe ghiottonerie peccaminose. Le frutte sono pochine; potete scegliere tra una bella pera, una brutta pesca e un mezzo grappolletto d'uva. Ma infine, anche da Bignon, o al caffè Riche, se siete una persona a modo, non mangerete mica tutto quello che vi portano in tavola. E il vino? Qui i vini, poco più, poco meno, si somigliano tutti. Grossi e piccoli ristoratori, vi servono una piquette corrigée, che deriva la sua maggiore o minore bontà dal cartellino. Ed anche qui bisogna far l'atto di fede che si fa in Italia, quando si prende per vin di Chianti il Toscanello, il suo vicino della campagna pisana.
Dunque io dico, l'article de Paris varia secondo le strade e le insegne. Potrei parlarvi dei libri, che comperate a caro prezzo dal libraio, e che avete a stracciamercato sui muricciuoli, quantunque si tratti della medesima edizione, e spesso della medesima freschezza; ma il capitolo si è fatto lungo oltre misura. Ritenete questa verità apodittica, che dappertutto si pela, ma che soltanto a Parigi si conosce l'arte di plumer un poulet sans le faire crier. Al gran prezzo ed al piccolo; e nessuna borsa si salvi.
III
Poliglottismo commerciale. Eccezioni alla regola. Orgoglio legittimo. La fratellanza dei popoli e la razza latina. Non e ne 'ncaricà. Retorica onesta. La parabola del buon levatore. Laboremus.
English spoken, Man spricht Deutsch, Men spreeckt hollands, Se habla español,
e chi più n'ha più ne metta; io ci rinunzio, avendo dimenticato il testo preciso della medesima frase in russo, in polacco e in ungherese, che ho avuto la fortuna e il piacere di leggere su certe vetrine di via Lafayette.
In questo poliglottismo commerciale di Parigi tutte le nazioni sono rappresentate, ove se ne eccettui la nostra. Non mi è occorso di vedere in nessun luogo il desiderato «si parla italiano», salvo in via Castiglione, entro l'insegna d'un fotografoitaliano. L'eccezione conferma la regola.
Lo fanno apposta? Non credo. Quando un francese sa scrivere «come statte?» o farvi sapere che l'italiano «attrapare» corrisponde al francese attraper (preziosa notizia che ho trovata sul Pays, in un articolo filologico di Granier de Cassagnac padre) si suol dire a Parigi che costui parla l'italiano «comme le Dante». È dunque da credere che il desiderio di parer versati nella nostra lingua, evidente in certuni, escluda la possibilità del dispregio. Aggiungerò una prova convincente. Ieri il mio parrucchiere mi domandava con aria di profondo interesse: «est-ce vrai, monsieur, que l'italien ressemble beaucoup au latin?» «A quelque chose près; gli risposi; et c'est vraiment dommage que ce ne soit du latin tout pur.»
Il fatto è questo, che i francesi ignorano la nostra lingua e non sentono il bisogno d'impararla. L'italiano, quando esce fuori di casa sua, s'ingegna come può; bene o male, ma più spesso con mediocre infamia, spiccica la lingua degli altri. Ogni altro popolo d'Europa, quando varca i suoi naturali confini, parla volontieri la propria e mostra di stimar poco coloro che, interrogati, non gli rispondono in quella. È un nobile orgoglio, secondo certuni; ma io lo definisco l'orgoglio dell'ignoranza. Quando sono in un paese che non è il mio, amo parlare la lingua di quel paese; quando sono in casa mia, m'ingegno di farne gli onori, parlando al forastiero la lingua sua, se ho la fortuna di masticarne un pochettino. Questo era, dopo tutto, anche il gusto di Byron, che scriveva mirabilmente nella lingua di Shakespeare, ma si sarebbe vergognato di parlarla sul continente, avendo l'aria di imporre ai forastieri l'idioma di Wellington e di Hudson Lowe. Al diavolo dunque l'orgoglio della lingua patria, del non volerne saper altra e del pretendere che tutti parlino la nostra. Superbia per superbia, teniamoci quella del sapere qualche volta la lingua degli altri, del potere dare, col Mazzini e col Ruffini, degli scrittori all'Inghilterra, col Fiorentino e con altri parecchi, alla Francia. Qualche volta abbiam fatto di più, dando ai nostri vicini degli uomini di Stato, come il Mazzarino, degli imperatori, come il Buonaparte, dei dittatori, come il Gambetta.
C'est nôtre orgueil à nous, anche quando di questi uomini si dicono corna. Bisogna leggere per esempio ciò che si scrive qui del Gambetta, trionfante a Romans. Le rusé gênois, l'opportuniste italien, sono i titoli più alla mano. E non sanno il piacere che ci fanno, quando scrivono e dicono di queste cose. A buon conto scoprono il loro mal talento e rendono a noi ciò che è nostro.
Ritorno al mio tema. I francesi, dirà taluno, non conoscono la nostra lingua perchè non hanno interesse a studiarla. Per una parte è vero, amando noi di parlare il francese, quando siamo in casa dei nostri vicini. Per l'altra non lo è più tanto, dovendosi ammettere che un po' d'obbligo dovrebbero sentirlo anche loro, e notando inoltre questa sollecitudine con cui tanti bravi bottegai si affannano a notificare urbi et orbi che essi hanno il dono delle lingue, meno la nostra. E perchè questa esclusione, di grazia? Non è lecito di conchiudere che ci amano poco?
Per me, e senza mestieri di tante licenze, conchiudo addirittura così. L'ho accennato in uno dei capitoli precedenti e lo ripeto in questo. Chiacchiere di fratellanza, di razze latine, d'interessi paralleli e via discorrendo, ne sentirete molte anche qui; ma non c'è da crederne un frullo. Sono i giornalisti che svecchiano queste anticaglie, e noi, qui, dobbiamo accordare ai giornalisti quella fede che ottengono qui. Consentitemi la ripetizione dell'avverbio; è proprio qui che si sente questo difetto d'amore per noi; esso traluce, trapela, traspira e trasuda per ogni verso, nella sua forma più naturale e più schietta. Non è odio, non è malumore, è freddezza.
Che cosa importa a voi della donna che non vi piace? Può passarvi a lato quanto vuole, ma non avrà da voi che un'occhiata distratta. Può esser bella come pare a lei e agli altri, ma a voi non farà nè caldo, nè freddo; non negherete la cosa, ma non penserete neanche ad ammetterla; farete come Mastro Raffae', consigliato dalla canzone a non incaricarsene punto.