Bartolomeo Fiesco stava fra due; nè già pei commenti di Filippino, che lo avrebbero anzi persuaso a dire un no tondo tondo, ma per la lettera di Gian Aloise. Si volse allora alla madre, domandandone con gli occhi il parere.
È cortesia lo andare; disse madonna Bianchinetta. Se tu non puoi accettare, figliuol mio, dirai meglio le tue ragioni a voce, che non per iscritto.
Si volse egli allora a sua moglie, e nebbe queste parole:
Bisogna andare. Te lo avevo già detto per la prima lettera; e nella seconda son nuove ragioni, che mostrano anche molta fede in te. Si verrebbe meno alla fede di un tantuomo, non andando alla chiamata.
Ah! siate lodata, madonna Juana; gridò Filippino giubilante. Sarete voi la fortuna di casa Fiesca.
Fior doro non potè trattenersi dal ridere.
Vedete, dissella, da che distanze doveva ella venire!
Eh! rispose Filippino. Le vie della Provvidenza son tante! Si partirà dunque domattina; soggiunse. Gian Aloise sarà così lieto di riverirvi!
Correva troppo, messer Filippino bello; e fu fermato di schianto.
Voi mi mettete dun viaggio che io non farò certamente; rispose Fior doro. È delle donne custodire la casa. Stando accanto alla madre di mio marito, mi parrà di non averlo tutto perduto, per quei due giorni che vorrà durarne lassenza.
E se durasse di più? domandò Filippino, che non voleva darsi per vinto.
Allora allora, si vedrebbe; rispose conchiudendo Fior doro.
Quella sera, ritirandosi nelle sue stanze, il capitano Fiesco diceva alla moglie:
Filippino mi annoia.
Annoia anche me; rispose Fior doro. Ma è giovane; si cheterà. Intanto bisogna riderne.
Potere! È lui, frattanto, il noioso che mi mette tutti questi impicci sulle braccia. Non lo vedi tu, che fa scrivere due lettere in un giorno, e ad un oscuro uomo come il tuo Damiano, dalleccelso Gian Aloise Fiesco, potentissimo tra i signori dItalia, ed amicissimo del re di Francia? Io, come dice frate Alessandro, faccio un ridosso ai Commentarii di Cesare: ma il vecchio di Violata vuol farne un altro alle Epistole di Cicerone, che son più di ottocento.
Vedi? gli disse sorridendo Fior doro. Bisogna andare, perchè non nabbia a scrivere altrettante.
Andare, riprese Damiano, più Damiano che mai in quellora, e dirgli quel no, che avrei potuto mettere in carta?
Non è certo, replicò la bellissima donna, che quel no si possa scriver meglio, potendolo dire con garbo, dopo aver sentite tutte le ragioni del tuo nobil parente. Ci penserai, del resto, le peserai attentamente. Potresti anche lasciarti persuadere da qualche ragione più forte, che toccasse lutilità della casa e lonor del tuo nome. La ragione più forte non ci sarà? Il tuo no sembrerà detto dopo aver meditato, e ad ogni modo ne avranno scemato lasprezza le parole cortesi e la stessa tua condiscendenza allinvito.
Damiano guardò Fior doro con tenerezza, e le pose al collo le braccia.
Bella bocca! le mormorò. Bella bocca, che parla così bene!
Bella! ripetè ella con accento malizioso. E non cara?
E bella e cara, gridò Damiano, con uno de suoi impeti di passione, e, se vi piace di saper tutto, adorata.
Capitolo V.
Al soccorso di Pisa
Il palazzo di Gian Aloise Fiesco sorgeva sul colle di Carignano, accanto alla chiesa patronata che un cardinal Luca Fiesco, diacono di Santa Maria in Vialata a Roma, aveva ordinato nel 1336 fosse eretta in Genova col medesimo titolo; donde il nome di Vialata si stese a tutta quella parte della collina, corrompendosi poi nel dialettale Viovâ per rifarsi ancora italiano in Violato e dar occasione a qualche moderno di derivarlo dalla copia delle viole che vi nascevano e soave fragranza diffondevano intorno. Chi sente larcana poesia dei fiori può anche contentarsi di questa etimologia, che ha dopo tutto il gran merito di suscitare graziosi pensieri.
Non ne suscitava di tali il palazzo, edificato presso il fianco sinistro e perciò a mezzodì della chiesa, con la quale faceva angolo il suo fianco destro, conterminando il piazzale di quella fino al bastione, che in guisa di belvedere si stendeva lassù verso ponente per un gran tratto del colle. E mentre da quel lato il palazzo dei Fieschi dominava il prospetto della superba Genova, fronteggiando il colle di Sarzano e la mole dellantico Castello, guardava da tramontana il vasto anfiteatro del monte Peraldo colla sua gran cinta di mura alte sui greppi; da mezzogiorno, poi, vedeva gran tratto di mare, solcato da centinaia di vele, che uscivano dal porto o venivano allapprodo, passando sotto i suoi occhi lungo la Marinella, detta altrimenti il seno di Giano; e da levante, se pur non iscorgeva il Bisagno, nascosto sotto le alte mura di Santa Chiara, godeva la scena incantevole del colle dAlbaro, colla imminente piramide del monte Fasce e collo sfondo azzurro del promontorio di Portofino, dietro a cui si stendeva la riviera di Levante, oramai diventata un gran feudo dei Fieschi.
Al palazzo, che meglio si sarebbe detto castello, si accedeva da due parti; da levante per un viale campestre, collegato alla via che dallAcquasola e dagli Archi di Santo Stefano metteva a San Giacomo di Carignano, e là si presentava difeso da due grossi torrioni; da ponente, ove appariva più alto, quasi impervio come una rupe Tarpea, si giungeva ad esso dal borgo dei Lanieri, lungo il Rivo Torbido. Colà, passato appena il convento e la chiesa de Servi, si levava pel dorso della Montagnola una gran cordonata di oltre cento scaglioni, onde si risaliva ad un loggiato coperto, di là riuscendo ad un ingresso laterale delledifizio, aperto sopra una vasta spianata di giardino. Arrivati finalmente lassù, si godevano i particolari di quella nobile fabbrica, onde da lontano si era ammirata soltanto la maestà del complesso. Non dissimilmente dalla chiesa contigua, il palazzo era sui quattro lati incrostato di marmi a fasce alterne bianche e nere, rotte a giuste distanze da grandi finestre, partite a colonnini; e le finestre, inframmezzate da statue, raccolte nelle loro nicchie sagomate con bellarte dintagli, erano fiancheggiate da lunghi ramponi di ferro, rivoltati a staffa, tutti terminati in un giglio di ferro battuto, certamente in omaggio cortigianesco ai gigli di Francia. A quei ramponi sporgenti, che altri casati di parte ghibellina usavano decorare dun capo daquila, si soleva nei giorni di pubblica festa appendere gli scudi e larme di famiglia; il che dicevasi fare la impavesata. Nè mancava la conoscenza ossia la insegna della gente, scudo, cimiero e motto, espressi in pietra di Lavagna e murati ben alto sui prospetti del palazzo. Più basso, per modo che si vedesse bene dai viandanti, era murata la targa indicante il privilegio dimmunità dalla forza della giustizia, onde il Comune aveva donate le case dei Fieschi. In quelle targhe, o liste di marmo, poste sugli angoli delledifizio, si vedevano scolpite due mani rivolte alla croce di Genova; ed erano i segni ultra quae non licebat satellitibus homines infestare.
Descritta la forma esterna del palazzo di Vialata, sarebbe forse utile fare altrettanto per gli appartamenti e gli arredi. Ma noi abbiamo soltanto da accompagnarci Bartolomeo Fieschi, il quale non vorrà restarci lungamente; perciò tralasceremo una descrizione che troppo somiglierebbe ad un inventario, nella sua aridità notarile. Luigi XII, che alloggiò in Vialata nellanno 1502, ebbe a dire, certamente prendendo occasione dal palazzo del suo ospite, che le case dei Genovesi erano più doviziose e meglio fornite della stessa sua reggia. Io, per amore dellarte, accennerò soltanto che nel vestibolo Gian Aloise aveva fatto dipingere a buon fresco i Giganti fulminati da Giove; motivo che indi a poco doveva essere imitato da Pierino del Vaga nella caminata di Andrea Doria a Fassòlo. Rivalità di sfoggio signorile, che incominciava a mostrarsi in forme artistiche e mitologiche, per girar poi alle manifestazioni politiche e diguazzare nel sangue! Per opera di un altro Gian Luigi, quarantadue anni più tardi, il Giove ottuagenario di Fassòlo, mortogli il nipote Giannettino e minacciata da presso la recente sua reggia, era costretto a fuggire di nottetempo infino ai monti di Voltri; ritornato di là a cose quiete, non perdonò la paura che gli avevan fatta provare, e prese a fulminare i Giganti di Vialata, abbattendone lorgoglio, diroccandone dalle fondamenta il palazzo fastoso.