Voglio morderti il...
Indice
Voglio morderti il...
Introduzione
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Epilogo: Oliver
Ringraziamenti e Note dell’Autrice
Titolo Originale
Note
L’autore
Voglio morderti il...
Gemma Cates
Voglio morderti il...
Storia d’amore quasi umana di una vampira
Secondo volume
Titolo originale: I Wanna Bite Your…
Traduttore: Roberto Felletti
Introduzione
Voglio morderti il...
Qualsiasi cosa. Tutto. Perché mi fai impazzire e mi fai sentire speciale.
Non dovrei essere attratta da te, ma lo sono.
Sei un bambinone. Un ragazzo che non è mai diventato un adulto. Un musicista barista che non saprebbe cosa sono una buona assistenza sanitaria e un piano pensionistico neanche se ti mordessero quel tuo culo delizioso.
E custodisci dei segreti. Su chi sei, forse su che cosa sei.
Sei tutto quello che evito negli uomini. Non corrispondi a nessuno dei miei criteri per uscire con qualcuno.
Ma il sesso non è uscire con qualcuno... giusto?
Una vampira ossessionata dagli elenchi con l’amore per le regole (io) conosce uno schianto non-proprio-umano con troppi segreti (lui) e facciamo yoga nudi. Anche il sesso. Il sesso lo facciamo, decisamente. Ma è tutto quello che abbiamo. Non siamo compatibili sotto tutti gli aspetti adulti che una vera relazione richiede. O lo siamo?
Avvertenza dell'autrice: questo libro contiene bravate erotiche vampira/non-proprio-umano, abbastanza parole osé da far arrossire qualcuno (non me) e una vampira che desidera il suo vissero felici e contenti, ma che non necessariamente lo riconosce quand’esso la fissa negli occhi.
1
C’era un fastidioso bambinone alla mia festa.
Ad essere sinceri, ce n’erano alcuni. Anche Robert, normalmente un tipo un minimo decente al lavoro, stava manifestando il coglione che era in lui mentre si ubriacava con cocktail a tema Halloween e troppe birre.
E poi, chi è che va a una festa vestito da versione vampiresca di Jon Snow? Questo era strano.
Ma c’era un bambinone in particolare che non avevo invitato, non conoscevo e che pensavo di buttare fuori a calci.
Le mie feste sono esclusive? No. La gente porta amici, e quegli amici sono i benvenuti. Avevo da bere e da mangiare in abbondanza. Ce n’era abbastanza per tutti. Anche se qualcuno – probabilmente un gruppo di voraci selvaggi – aveva fatto man bassa dell'enorme vaschetta di queso che avevo preparato. Becca si sarebbe incazzata se si fosse fatta vedere.
Sospettavo l’extra-fastidioso bambinone irsuto.
Aveva quello sguardo. Era come un vagabondo affamato che migra da festa a festa, sostentandosi con stuzzichini e queso. Il tipo di ospite che beve tutta la tua birra, rutta i suoi grazie e semina peli umani nel tuo bagno.
Aveva una folta barba, scura con tracce di rosso, e una zazzera altrettanto folta di capelli castano scuro che gli dava un aspetto un po’ selvaggio ma comunque con stile. Potevo solo immaginare il tempo che aveva impiegato per sistemarsi quel casino di barba onde evitare che gli nascondesse la faccia.
Beh, non era un casino. Era ben curata.
Ma gli orli sfilacciati dei suoi pantaloncini cargo, le infradito (a ottobre, a una festa) e la logora maglietta a righe la dicevano lunga. Quando mi era capitato di stare accanto a lui, prima, in fila al bar, avevo chiesto, “Tu chi saresti? Un barbone da spiaggia?”
Il sorrisetto del bambinone era cresciuto lentamente per poi diventare un gran sorriso cala-mutande. “Sono semplicemente me stesso.”
Poi ero abbastanza sicura che stava per presentarsi quando ero stata informata della scarsità di queso. Andare a indagare – e stabilire che effettivamente eravamo senza queso, per quanto improbabile fosse – non mi era passato ancora per la mente. Fino a quel momento.
Lui mi stava infastidendo.
Lui mi stava guardando.
E non il solito sguardo da “wow, quella tipa ha le tette grosse”. Quello dura da due a tre secondi, fino a cinque se il tipo è un pervertito o ubriaco. Ma quello di Mr. Sono Semplicemente Me Stesso era più persistente - e lui fissava tutto di me.
Mi faceva rizzare i peli sulla nuca. Io ero la predatrice, che cazzo. Non venivo braccata; ero io quella che braccava. E questo tizio non aveva recepito il messaggio.
Non stava socializzando.
E apparentemente non era venuto insieme a qualcuno.
Quello era strano. Perché era venuto se non socializzava o non era con qualcuno? Cosa aveva in mente? Come faceva a sapere che io organizzo fantastiche feste in cui ci si può imbucare, se effettivamente non conosceva nessuno?
Inoltre, poteva anche smettere seduta stante quella stronzata di fissare. Mi ero avvicinata a lui, cercando per prima cosa tracce di sale delle patatine o gocce di queso. Era lui il colpevole del queso; ne ero sicura. Non avendo trovato nulla – la sua logora maglietta era assottigliata dai troppi lavaggi, ma era pulita - lo avevo guardato negli occhi fingendo un sorriso. “Conosci qualcuno, qui?”
Lui aveva inarcato le sopracciglia, come se fosse sorpreso di essere stato sgamato per la sua apparente mancanza di invito. Tendendo una mano, aveva detto “Conosco te, se questa volta mi permetti di presentarmi. Oliver Watson.”
Si dava il caso che fossi una fan di Sherlock Holmes, e io ero rimasta offesa dal nome di quel tizio. Quella bestia di bambinone, con i suoi bicipiti sporgenti, le gambe robuste e le spalle larghe, non era un personaggio di contorno. Era l’attrazione principale.
Aspettate, torniamo indietro. Era sciatto e sembrava un barbone, e non corrispondeva affatto agli standard del fidato assistente di Holmes.
E, dannazione, la sua mano. L’appendice che mi aveva proteso, come se io fossi felice di prenderla, parlava da sé. Avrei dovuto capirlo guardando quel tizio con una sola occhiata. Aveva dita lunghe e forti, con calli ai polpastrelli. La mano di un chitarrista. Era mancino, altrimenti mi sarebbe sfuggito.
Ero indecisa se accettare il gesto, ma poi avevo perso l'occasione quando l'aveva ritirata. Aveva sorriso, come se la mia sgarbata esitazione lo avesse divertito.
“La tua barista è discreta.” Aveva inclinato la testa in quel modo impudente, egocentrico, tipico degli uomini che pensano di governare il mondo.
“Io sono più bravo, ma lei non è male.”
“Quindi, sei un barista?” Quando non era un musicista colpito da povertà. Figurati. Aveva l’aria di uno che scopava molto. Musicista più barista equivaleva a una fottuta vagonata di sesso.
Una piccola parte del mio cervello saltellava su e giù, sottolineando il fatto che lui avesse un impiego, uno dei requisiti del mio elenco. E nel mio elenco degli scopabili, avere un impiego poteva essere assai ampiamente interpretato come qualsiasi lavoro che contribuisse a pagare le bollette.
Un impiego… con orari infernali, circondato da donne arrapate che ci provavano costantemente, e probabilmente lui non metteva da parte niente per quando sarebbe andato in pensione. Questa osservazione l’aveva fatta l’altra parte del mio cervello, quella scettica.
“Preparo un buon margarita, e un ancor più buono Bloody Mary.” Aveva stretto gli occhi e il suo sguardo mi trafiggeva.
Avevo la spiacevole sensazione che stesse insinuando… qualcosa con quel commento sul Bloody Mary. Ma non che fossi una vampira. Era assai improbabile che quel trasandato, testosteronico barista suonatore di chitarra sapesse qualcosa sui vampiri. Stavo cominciando a sentirmi sbronza, quindi probabilmente era soltanto l’alcol che mi rendeva paranoica. Non che l’alcol, di solito, facesse quell’effetto, ma d’altronde, di solito, non tracannavo nemmeno bicchierini di Fireball.